Un mondo migliore è possibile Basterebbe privatizzare tutto

Nei giorni scorsi le dichiarazioni del premier Mario Monti riguardanti il disastro dei conti sanitari hanno spinto taluni a paventare una privatizzazione di ospedali e cure mediche. Subito è arrivata, però, la nota del ministro Renato Balduzzi, che ha sottolineato come vi sia stato «sulle parole del presidente del Consiglio un travisamento mediatico». Se insomma qualcuno ha nutrito l'illusione di una svolta a favore del privato, può abbandonare tale sogno.
Ma avrebbe senso immaginare che ogni settore - comprese la sanità, la giustizia, la protezione ecc. - possa essere privatizzato? Per una curiosa coincidenza, proprio in questi giorni una rivista libertaria californiana, Reason, ha messo on-line un'intervista a David Friedman, la quale può aiutare a guardare con occhi diversi tali temi.
Per l'autore de Il marchingegno della libertà (scritto nel 1973 e tradotto in italiano dall'editore Liberilibri), tutto può essere affidato al mercato e tutto dovrebbe esserlo. Il primo argomento che egli usa è che se è difficile credere che lo Stato possa produrre con successo le automobili o il cibo, perché mai dovremmo ritenere che in una produzione certo non meno semplice - quale è quella del diritto - lo Stato avrà maggiore successo? Perché chi è scadente nel consegnare la posta o nel far viaggiare i treni dovrebbe eccellere nella gestione delle scuole o degli ospedali?
A giudizio di Friedman, sul piano teorico l'obiezione fondamentale allo Stato è da riconoscere nella sua incapacità ad affrontare i problemi di coordinamento. Gli apparati burocratici pubblici sono fallimentari per una ragione assai semplice: in quanto si rivelano inadeguati a connettere tra loro, senza prezzi di mercato e adeguati incentivi, quella miriade di persone che invece il sistema degli scambi sa far cooperare con grande facilità. Questa superiorità della libertà sulla coercizione, della spontaneità sulla pianificazione, è comunque testimoniata anche dalla storia.
Agli argomenti teorici, il figlio di Milton Friedman accosta considerazioni provenienti dai suoi studi sui sistemi legali di civiltà molto diverse e lontane. E questo filone di ricerche è qualcosa di veramente interessante, come ben sa chi abbia letto La città volontaria, un lavoro a più mani (pubblicato pochi anni fa da Rubbettino e Leonardo Facco) in cui s'indaga il diritto commerciale internazionale della lex mercatoria, ma si pone l'attenzione pure sui servizi di protezione e lotta al crimine nelle città inglesi prima della nascita delle polizie statali, sul sistema pensionistico privato delle società di mutuo soccorso, sulle scuole private dell'India contemporanea, e via dicendo. Questi studi ci aiutano a comprendere che lo Stato non ha mai inventato nulla, ma si è limitato a incamerare e monopolizzare talune istituzioni che la società già aveva generato in piena autonomia.
Quando allora ci si chiede se tutto può essere privatizzato, la domanda probabilmente è mal posta. Bisogna invece chiedersi «se» e «in che modo» sia possibile restituire alla società e alle sue articolazioni quello che i poteri pubblici - per ragioni di potere e controllo sociale - le hanno sottratto. La storia del sistema d'istruzione italiano (ma lo stesso vale anche in Francia e altri Paesi) è emblematica: la scuola da noi è quasi sempre statale e pagata dai contribuenti, perché lo Stato unitario aveva bisogno di «fare gli italiani» e quindi doveva disporre di un apparato in grado di lavare il cervello alle giovani generazioni. Era necessario che i bambini non fossero alfabetizzati dal prete del paese, come succedeva prima, o comunque da istituzioni scelte e controllate dalla famiglia, ma che leggessero Cuore di De Amicis o altri testi analoghi. In tal modo, il Regno d'Italia riuscirà a dotarsi di soldati e contribuenti.
Contro il carattere inefficiente e illiberale di tutto quanto è gestito dallo Stato, Friedman rievoca una serie di straordinari esperimenti sociali: l'Islanda medievale, priva di un potere centrale, studiata da Jesse Byock ne La stirpe di Odino (edito di recente da Mondadori), ma più in generale l'intero sistema delle relazioni che hanno caratterizzato l'universo - altamente decentrato - dell'Europa feudale.
Oggi è difficile accettare simili sfide intellettuali, anche perché siamo vittime di un imperialismo del presente. Per noi il diritto è la legge, quale è «fabbricata» dal parlamento, e abbiamo dimenticato che per secoli - sia pensi allo ius civile romano o alla common law inglese - le cose sono andate in altro modo. Ci riesce anche ostico accettare che la solidarietà debba tornare a essere un compito nostro, personale, e che non si possano abbandonare i più deboli nelle mani di funzionari pubblici che non sanno soccorrerli in maniera adeguata.
Parlare di «privatizzazioni», e di questo Friedman è consapevole, significa allora immaginare un diverso protagonismo per ognuno di noi. In questa Europa che sembra condannata a una decadenza irreversibile, una tale sfida è difficile, ma è esattamente per tale ragione che talune società decadono e altre ne prendono il posto.


Con ogni probabilità, il futuro sarà di chi avrà l'intelligenza di valorizzare al meglio lo spirito d'iniziativa e la voglia di fare, lasciando fiorire istituzioni di ogni tipo, purché pronte a mettersi al servizio del prossimo: offrendo sanità, educazione, diritto, protezione, assistenza o altro. È da lì che ci si può aspettare l'emergere di vere novità positive e anche lo stimolo, per questo nostro continente sempre più vecchio, a ripensarsi e rinascere.

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