La morte di Gramsci. Un funerale in rosso con le bugie di Togliatti

"Il Migliore" tentò subito di attribuire la fine del fondatore del PCdI a Mussolini. Ma la sua fine rimanda piuttosto ai metodi staliniani...

La morte di Gramsci. Un funerale in rosso con le bugie di Togliatti

Subito dopo la morte di Antonio Gramsci, avvenuta il 27 aprile 1937, Palmiro Togliatti pubblicò su Lo Stato Operaio un necrologio in cui scriveva che la morte del fondatore del PCdI rimaneva avvolta da «un'ombra che la rende inspiegabile» e lasciava intuire che dietro di essa potesse nascondersi la volontà di Mussolini e, più in generale, del fascismo di liberarsi definitivamente di un avversario irriducibile: «Chi conosce Mussolini e il fascismo sa che avanzare questa ipotesi è legittimo. La morte di Gramsci rimane inspiegabile, soprattutto per il momento in cui è avvenuta» quando, cioè, spirata la pena, egli «aveva il diritto di essere libero, di chiamare presso di sé amici e medici di fiducia, e di essere quindi liberamente assistito». Che l'ipotesi di Togliatti rispondesse a motivazioni di natura propagandistica è evidente, se non per altro, per la considerazione che né Mussolini né il fascismo potevano avere interesse a provocare la morte del leader comunista quando il regime era all'apice della popolarità. Tanto più che già nell'ottobre del 1934 era stata notificata a Gramsci la concessione della liberazione condizionale che sarebbe diventata totale libertà il 21 aprile 1937, pochi giorni prima della sua morte.

Le «ombre» evocate da Togliatti, tuttavia, non sono mai state dissipate, ma le anomalie che si riscontrano negli eventi che fanno da corona alla morte di Gramsci e le ricerche storiografiche sembrano condurre in una direzione diversa da quella indicata dal «Migliore». Le versioni sulla fine del fondatore del PCdI sono ammantate di mistero. Ce n'è una, per dir così, ufficiale, secondo cui Gramsci, colpito da ictus cerebrale, sarebbe morto dopo una lunga agonia fra le braccia della cognata Tatiana Schucht, che ne scrisse in proposito in una lettera inviata all'economista Piero Sraffa: una testimonianza che, considerata l'attività di «informatrice» della stessa, non è attendibile e appare il frutto di un tentativo di manipolazione. Ce n'è un'altra fondata sulla testimonianza di degenti della clinica, che parla di suicidio e che pure appare inverosimile. Ci sono ulteriori ipotesi a cominciare da quella che parla di un omicidio per avvelenamento, prassi che i servizi segreti sovietici erano abituati a seguire.

Nel 2008 lo storico Piero Melograni ricordò la reticenza che negli ambienti della cultura ufficiale marxista avvolgeva quell'evento e aggiunse: «Io, e non solo io, ho il sospetto, lo dico apertamente, che Gramsci sia stato ucciso per ordine dei sovietici, come in parte fanno pensare le parole di Togliatti». Concluse, poi, con un auspicio: «È un sospetto, un'ipotesi di ricerca e mi piacerebbe che gli storici lavorassero in futuro su di essa svolgendo indagini che non mi sembrano facili». L'invito è stato raccolto da Luigi Nieddu, un appassionato cultore di Gramsci alla cui memoria ha dedicato più volumi, il quale, al termine di un'indagine durata diversi anni e supportata da una puntigliosa ricerca archivistica e da un'approfondita conoscenza della letteratura in materia, ha sottoposto a critica tutti gli indizi che mettono in discussione la versione ufficiale della morte del fondatore del PCdI. Aghata Christie faceva dire a Hercule Poirot che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi diventano una prova. Nel libro di Nieddu gli indizi sono ben più di tre. C'è la storia del certificato di morte non firmato da nessun medico e privo di indicazione delle cause del decesso; c'è la vicenda della cremazione del cadavere effettuata senza una richiesta esplicita e indispensabile secondo la legislazione del tempo. C'è la vicenda delle otto fotografie del cadavere di Gramsci, scattate dopo la morte, apparse, scomparse e ricomparse e, tutte e sempre, ritoccate. C'è l'altro mistero delle ciocche di capelli brizzolati prelevate dal fratello Carlo sulla salma prima che fosse avviata al forno crematorio, per qualche tempo esposte in una delle teche della Casa Museo allestita nel comune di Ghilarza dove Gramsci aveva vissuto gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza e poi improvvisamente scomparse. E via dicendo.

Quel che sembra assodato è che Gramsci, attorniato da un nugolo di agenti messigli alle costole dall'Nkvd per il tramite di Lev Boris Helfand, figlio di quel Parvus che aveva organizzato nel 1917 il rientro di Lenin in Russia e che poi era diventato amico di Galeazzo Ciano, non intendeva trasferirsi in Urss temendo di finire sotto processo e di diventare vittima delle «purghe» di Stalin. Che i suoi timori non fossero campati in aria lo dimostra un episodio agghiacciante. Quando Davide Lajolo, che aveva visto le bozze del libro di Renato Mieli, Togliatti 1937, sui processi di quell'anno, chiese a Togliatti se le cose scritte su di lui fossero vere o false, si sentì rispondere che erano vere. E alla domanda successiva su che cosa avrebbe fatto Gramsci, se fosse stato al suo posto, ebbe questa lapidaria risposta: «Sarebbe morto!».

Luigi Nieddu non parla solo delle circostanze della morte di Gramsci. Nel suo volume c'è un'altra ipotesi importante relativa al famoso «quaderno» mancante dei Quaderni del carcere già oggetto di una lunga e articolata polemica storiografica cui hanno preso parte diversi studiosi gramsciani, da Franco Lo Piparo a Luciano Canfora. La tesi di Nieddu è che quel quaderno, di cui si è perduta traccia ma sulla cui esistenza non sussistono più dubbi, contenga gli appunti che Gramsci, anche sulla base della testimonianza del fratello, continuava a vergare, come aveva fatto in carcere, anche durante la permanenza nella clinica romana.

Con molta probabilità, il contenuto di quel «quaderno» era scomodo per il partito e soprattutto per un Togliatti i cui rapporti con Gramsci erano diventati tempestosi, anche perché Gramsci era convinto che all'origine della sua condanna al carcere ci fossero concrete responsabilità di un Togliatti divenuto, ormai, stalinista convinto e inossidabile.

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