Lo scrittore russo Maksim Gor'kij è uno dei primi spettatori a raccontare, nel 1896, cosa si prova in una sala buia davanti allo scorrimento delle immagini: «sono stato ieri nel regno delle ombre». Resta però scettico sul valore artistico del cinematografo. La nuova invenzione conduce lo spettatore per mano «nel regno delle ombre», lo rende dipendente dalle immagini, gli «logora i nervi», ottunde la sua sensibilità. Quando Lenin prende il potere l'unico sostegno autentico al nuovo corso arriva dal frastagliato universo avanguardista. Fra gli scrittori famosi il solo Gor'kij collabora con i bolscevichi, spesso però con toni assai critici, che Lenin preferisce ignorare. Sul cinema Lenin e Gor'kij hanno idee abbastanza simili. Ma Lenin è un tattico. Piega il pensiero alle esigenze storiche.
Infatti, il fido collaboratore Anatolij Lunacharskij che a differenza del capo credeva senza riserve nel potere educativo e artistico del cinema riporta un suo giudizio che è diventato celebre: il cinema è «la più importante forma d'arte dell'epoca contemporanea». La «settima arte» dunque, per il leader bolscevico, rappresenta uno strumento decisivo ai fini della comunicazione nella moderna società, oltreché un'arma efficace da utilizzare nella contesa ideologica. Alle proiezioni ufficiali Lenin come ricorda la moglie Nadeda Krupskaja era piuttosto impaziente e non vedeva l'ora di tornare a casa per immergersi nella lettura. Invece Lev Trockij è di altro avviso: ritiene il cinema «il miglior strumento della propaganda», in grado di contrastare efficacemente il monopolio anestetico della vodka sulla popolazione. Lo scrive in un articolo apparso sulla Pravda il 12 luglio 1924. Il cinema per Trockij «compete non soltanto con la taverna ma anche con la chiesa. E questa competizione può rivelarsi fatale per la chiesa se noi realizzeremo la separazione della chiesa dallo Stato socialista fondendo lo Stato socialista con il cinema». Anche Stalin, grande appassionato di cinema, sempre nel 1924 assegna al film la funzione di importante «strumento di agitazione delle masse». Quando prenderà il potere, senza più avversari, si servirà delle immagini di finzione per rendere popolare il suo «mito». Ricorrerà ad un sosia: Mikheil Gelovani. Gli piaceva molto la sua recitazione, soprattutto per l'interpretazione nell'eroico La caduta di Berlino (1949) di Michail Ciaureli. Alla fine della proiezione privata al Cremlino c'è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Sapeva anche come adulare o ammansire i registi indisciplinati. Al grande Sergej Ejzentejn dopo la visione di Alexandr Nevskij (1938), battendogli la mano sulla spalla gli disse: «dopo tutto, sei un buon bolscevico!». Lo fece sudare freddo quando nel 1946 lo convocò di notte al Cremlino per discutere dei difetti della seconda parte di Ivan il Terribile.
Questa e tante altre informazioni si trovano nel bel libro di Peter Demetz Diktatoren im Kino. Lenin - Mussolini - Hitler - Goebbels - Stalin (Paul Zsolnay Verlag, pagg. 254, euro 24). Demetz, nato a Praga nel 1922, è un germanista che ha insegnato a Yale, ha scritto di Kafka e D'Annunzio. In questo suo essenziale ma acuto ritratto del rapporto fra i dittatori e il cinema, evidenzia soprattutto un elemento: senza le immagini le dittature novecentesche avrebbero avuto un altro volto.
Adolf Hitler era un grande appassionato di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste ad una proiezione presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino, o, quando è in vacanza, nella sala del ricevimento al Berghof. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. Il suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks. Il Führer indica quali film vuole vedere. Appena si spengono le luci smette di parlare. L'universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d'opera, anche dopo pochi minuti. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita». Joseph Goebbels il cinema lo ha amato durante gli anni di Weimar, e condotto con mano ferma durante il Terzo Reich. Si è guadagnato sul campo il titolo di «stallone di Babelsberg». Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l'ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Rischia di mandare in frantumi la sua carriera per amore di un'attrice, la cecoslovacca Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, ventunenne, nel 1936. I due non fanno nulla per nascondersi. Goebbels vorrebbe addirittura divorziare dalla moglie Magda. Hitler, loro testimone di nozze, da sempre venera Magda. Il Führer non approva il divorzio. L'attrice di fatto viene esiliata. I gusti cinematografici di Goebbels sono diversi da quelli di Hitler. Il suo film preferito è Via col vento (1939) di Victor Fleming. Il cinema che realizzava, spesso finanziandolo senza riserve, doveva essere di ottima qualità, necessaria a celare la propaganda, che doveva rimanere impercettibile. Anche durante la guerra il suo modello di riferimento è un film statunitense: La signora Miniver (1942) di William Wyler. Annota nel diario: «gli americani hanno un modo magistrale nel trasformare dettagli marginali in autentici ornamenti artistici. Mai una sola volta i personaggi manifestano la loro collera contro la Germania. Mostrerò questo film ai nostri produttori».
Il cinema è la modernità. L'avanguardia futurista idolatra il cinema, innalzandolo ad arte nuova, modernissima. E il totalitarismo è il frutto avvelenato della modernità. Mussolini, nella costruzione dell'uomo nuovo fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». A due uomini fidati viene dato il compito di organizzare il settore: Luciano De Feo per ciò che riguarda la documentaristica e Luigi Freddi per l'industria del divertimento. Il Duce si riconosce nel documentario nei panni dell'eclettico sportivo che cavalca, nuota, scia e tira calci al pallone. Si riconosce un po' meno in Annibale Ninchi di Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, kolossal fascista che fa rivivere gli antichi fasti romani.
Insomma, per concludere, i dittatori al cinema hanno chiesto e dato molto. Hanno capito che più della radio, del teatro e della letteratura, le immagini sarebbero state il vero perno per mantenere vivo il consenso popolare.
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