Pasolini e Feltrinelli: adesso i complottisti tornano alla carica

Ancora oggi l’intellighenzia si ostina a raccontare di agguati fascisti e messe in scena a opera dei servizi segreti deviati. Ma sulla morte dei due "miti" non c’è alcun mistero

Pasolini e Feltrinelli: adesso i complottisti tornano alla carica

Ritornano sempre. Ritornano, infallibilmente, le tesi, i testi, i rituali con cui è stata costruita, durante decenni, la versione politicamente corretta della realtà culturale italiana. Feltrinelli non morì, la notte del 14 marzo 1972,mentre a Segrate, nelle vicinanze di Milano, tentava di sabotare con la dinamite un traliccio dell’alta tensione. Pier Paolo Pasolini non fu assassinato a Ostia, la notte tra l’uno e il due novembre 1975, da Giuseppe Pelosi detto Pino la Rana, al tempo ancora minorenne. La verità, si insiste, fu ben diversa, e occultata da una magistratura cieca o corrotta e da un’informazione asservita. Entrambi, l’editore e lo scrittore, furono vittime di biechi complotti reazionari e fascistoidi, orditi con tale diabolica abilità che l’uccisione di Feltrinelli sembrò l’incidente sul lavoro d’un attentatore e l’uccisione di Pasolini fu contrabbandata come un fait divers, uno di quegli ammazzamenti d’omosessuali di cui son gremite le cronache.
A quarant’anni dalla fine del suo fondatore, la Feltrinelli ha pubblicato un opuscolo che ne riporta alcuni scritti e che ne ricostruisce l’itinerario umano e ideologico. Vi si ammette senza reticenze che Giangiacomo «creò nel 1970 i Gruppi d’azione partigiana» e che questi «compirono alcuni attentati dimostrativi presso cantieri edili a Genova e a Milano». Per quanto riguarda le circostanze della tragedia di Segrate questo testo è, bisogna riconoscerlo, molto cauto e succinto. «Non sono mancate perplessità sulla notte di Segrate». La breve annotazione è stata tuttavia arricchita e completata, con ben maggiore perentorietà, da una pubblicistica simpatizzante. Su Repubblica Simonetta Fiori ha asserito che «a distanza di quattro decenni ancora non sappiamo come siano andate veramente le cose». L’indomani del fattaccio l’intellighenzia di sinistra non aveva dubbi su come veramente fossero andate le cose. Un gruppo di intellettuali - tra loro Camilla Cederna- firmò un documento che qualificava l’accaduto come «una mostruosa provocazione» e che ridicolizzava le spiegazioni delle forze dell’ordine. «Il solito staff dell’Ufficio politico della Questura di Milano, Allegra e Calabresi in testa con tutti i loro soci dietro». Durante i funerali al Monumentale di Milano - ero presente come cronista del Corriere - ragazzotti spiritati ritmavano «uccidere un fascista non è peccato, compagno Feltrinelli sarai vendicato».
Onorare Feltrinelli è più che giusto. Per quei due colpi geniali che si chiamarono Dottor Zivago e Il gattopardo. ll suo nome deve restare in lettere d’oro nella storia letteraria italiana. Seppe resistere coraggiosamente al Pci, pronto a giustificare vilmente, con Mario Alicata, le pressioni e le intimidazioni delle autorità sovietiche. Fu risoluto e anche all’occorrenza cinico. Cito dalla Storia d’Italia di Montanelli e mia una testimonianza di Valerio Riva, che di Feltrinelli fu collaboratore. Riva raccontò dì una telefonata allucinante tra Olga Ivinskaia, vedova di Pasternak pur senza certificato matrimoniale, e Giangiacomo. La donna insisteva per avere i suoi soldi, e l’editore avanzava una obiezione dopo l’altra, sempre più impaziente e nervoso. Finché era sbottato dicendole press’a poco: «È mai possibile che tu m’infastidisca per un po’ di vile denaro, tu che hai la fortuna di vivere in una società socialista mentre io sono qui a soffrire sotto il giogo capitalista?».
Rimangono dubbi sulla vicenda di Segrate? Si potè crederlo, con molta buona volontà, per qualche anno. Non più quando nel 1979,durante un processo per terrorismo, gli imputati lessero un comunicato firmato Renato Curcio, Giorgio Semeria, Augusto Viel. Esso recava: «Osvaldo (nome di battaglia di Feltrinelli n.d.a.) non è una vittima ma un rivoluzionario caduto combattendo. Egli era impegnato in un’operazione di sabotaggio di tralicci dell’alta tensione... Fu un errore tecnico da lui stesso commesso, e cioè la scelta di utilizzare orologi di bassa affidabilità trasformati in timers». Occorre altro?
A rinfrescare il ricordo di Pierpaolo Pasolini ha provveduto ultimamente Emanuele Trevi con Qualcosa di scritto (Ponte alla Grazie, pagg. 246, euro 16,80) . Che Pasolini non l’ha mai conosciuto ma che ha lavorato nel fondo a lui dedicato, sotto la sferza iraconda di Lauro Betti che del pasolinismo era la turpiloquente vestale. Il romanzo di Trevi è divertente per le molte pagine dedicate proprio alla Betti che lui chiama la Pazza, e che da Pazza lo insultava come «zoccoletta». Anche secondo Trevi Pasolini fu vittima d’un agguato di fascisti che lo massacrarono urlandogli «sporco comunista, frocio, carogna». Il pentimento di Pelosi, dopo aver scontato nove anni e sette mesi di galera per un delitto del quale s’era sempre riconosciuto colpevole, è adesso preso molto sul serio: anche se poi Pino la Rana chiama dei morti a conforto del suo voltafaccia. Più d’uno ha visto nella conversione di Pelosi la conferma della ricostruzione che Oriana Fallaci fece a caldo, e che molte circostanze di fatto e ambientali avevano demolita. Il sensazionale piace, l’idea che i nostalgici del Duce siano immischiati in un misfatto piace anch’essa. E se ci si aggiungono gli accenni a Eugenio Cefis in Petrolio la trama è perfetta. Pelosi ha sostenuto - nella vulgata più recente - che l’incontro con Pasolini non fu casuale, era stato fissato già da una settimana. Voglio essere puntiglioso, anche le minuzie hanno un loro peso in questi intrighi. Come mai allora Pasolini s’imbattè in Pelosi dopo aver pranzato, e assistette sorbendo una birra al suo abbondante pasto? Si vuole insomma che la somiglianza tra la fine di Pierpaolo Pasolini e quella di tanti altri omosessuali sia una messinscena irrilevante. Credibile è Pino la Rana, le cui doti di mentitore sono conosciute.

Come tanti altri, anch’io riconduco quella brutta storia alla sua banalità da Grand Guignòl, o piuttosto da film pasoliniano sui ragazzi ragazzacci di vita. Le fantasie torbide, anzi malate di Petrolio hanno la loro sintesi in quest sentenza: «Il cazzo è la sola realtà». Se ne può anche morire.

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