Il "peccato" di Siti? Abuso di stereotipi

Fa discutere il nuovo romanzo sul prete pedofilo. Più che scandaloso è brutto

Il "peccato" di Siti? Abuso di stereotipi

Mai avrei voluto dare a Michela Marzano, che ieri sulla Repubblica ha liquidato il nuovo romanzo di Walter Siti come «gratuitamente scandalistico», un'operazione «il cui cinismo appare evidente», anche solo un pizzico di ragione. Purtroppo alla filosofa femminista e omosessualista stavolta di ragione gliene devo dare ben più di un pizzico, almeno una cucchiaiata. Magari l'avverbio «gratuitamente» l'avrei evitato: gli scandali non sono mai immotivati, a dirla con San Paolo sono macchinazioni di Satana, che i suoi motivi ce li ha eccome. Figuriamoci se manca di diaboliche motivazioni la storia di un prete con tendenze pedofile che però rifiuta l'approccio di un decenne il quale, sentendosi rifiutato, si suicida, causando nel mancato abusatore un dubbio orribile: non sarebbe stato meglio assecondarlo? Ma non sottilizziamo: dal punto di vista morale il romanzo è certamente da bruciare, tanto per sfruttare il titolo incontinente (Bruciare tutto, Rizzoli). E dal punto di vista letterario? Pure.
Proprio l'altro giorno leggevo Gilda Policastro che massacrava La più amata di Teresa Ciabatti: «Un continuo di lei tace, lui annuisce, lei replica, lui si limita a (sorridere, protestare etc.), lei ammonisce, lui controbatte: sintassi elementare e lessico vieto». L'accigliatissima critica letteraria portava come modello da seguire proprio Walter Siti e il suo stile, la sua padronanza del dizionario Garzanti. Non sono d'accordo, la Ciabatti non è la principessa della bella pagina ma nemmeno Siti mi sembra un esteta del vocabolario: sarà che subito mi imbatto in un «realizzare», dozzinale calco angloamericano che l'avrebbe potuto scrivere Giulia Innocenzi, altro che Teresa Ciabatti, laddove il Garzanti suggerisce «capire» o «comprendere» o «intendere»... E l'uso reiterato della parola «migranti» a me ricorda i Tg, non Carlo Emilio Gadda. D'accordo che il prete protagonista del romanzo è un immigrazionista, d'accordo che anche l'autore è chiaramente di quella parrocchia lì, ma la letteratura non va confusa col giornalismo e un letterato alle prese con la presente africanizzazione dovrebbe coniare un nuovo termine o almeno rilanciarne uno desueto: Geminello Alvi, per citare qualcuno che di stile ne ha davvero, scrive di «invasione dei mori».
A dire la verità una parola preziosa, una parola da salvare, in Bruciare tutto l'ho trovata ed è «baluba», ma è messa in bocca a un personaggio negativo, uno di quei «vecchi incancreniti nei loro pregiudizi» che don Leo alla maniera di monsignor Galantino vorrebbe convertire alla nuova religione dell'accoglienza irragionevole e indiscriminata, e rappresenta un altro punto debole del romanzo: il dialetto. Walter Siti è nato a Modena, ha studiato a Pisa, ha insegnato a Cosenza e all'Aquila, ha vissuto lungamente a Roma, dove ha ambientato vari romanzi precedenti, e a Milano abita solo dal 2012. Strano che scriva come se fosse cresciuto nella Milano di Testori e come se la Milano di Testori esistesse ancora. Di Testori se non di Delio Tessa: io ho cominciato a frequentare la capitale del nord quando l'autore del Ponte della Ghisolfa era ancora vivo ma di dialetto già allora ne sentivo pochissimo e solo dai nativi più attempati, mentre per una dialettofonia di massa avrei dovuto esserci quando Tessa pubblicava L'è el dì di mort, alégher! e dunque nel 1932 se non prima, visto che l'avvocato-poeta era un meraviglioso nostalgico e i suoi versi già fuori tempo massimo.
Il passatismo non è un difetto di Siti, che anzi nella modernità sembra rotolarsi come un maiale nel brago. E allora perché tanto idioma milanese, già da pagina due e finanche sotto i supercosmopoliti grattacieli di Porta Nuova? «Buondì don Leo, duve l'è che corre? l'Adua l'ha faa el cunili?». L'Adua sarebbe la perpetua, siccome Walter Siti non si fa mancare nulla: dopo Testori e Tessa anche Manzoni (c'è perfino un don Fermo e se manca una Lucia è perché se al don interessassero le donne il romanzo non esisterebbe). Anche le informazioni sul clero sembrano alquanto superate, io di sacerdoti ne conosco parecchi e non uno di questi, non uno, ha la perpetua. Qualcosa non quadra. Ma tornando al dialetto anacronistico, quale sarà la sua motivazione? Non riesco a spiegarmelo se non con la volontà di dare un tocco di colore locale, quello che piace ai giallisti da autogrill e ai loro lettori. A proposito di anacronismi ci sarebbe da parlare della tonaca indossata da don Leo: oggi i preti con la tonaca sono poco più numerosi dei preti con la perpetua, e giusto Siti ne ha incontrato uno...

Ma è chiaro: se per accozzare un libro hai bisogno di attaccarti allo stereotipo del prete pedofilo ecco che devi riesumare anche lo stereotipo del prete con la tonaca.
Ecco, Bruciare tutto è da bruciare perché è la sagra dello stereotipo travestito da alta letteratura e da sguardo sugli abissi dell'anima.

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