Antifragile: è questo il nuovo concetto elaborato da Nassim Taleb, immaginifico saggista già affermatosi a livello internazionale con un volume (Il cigno nero) che seppe unire alla forza degli argomenti una tempistica eccezionale: dato che poté offrirsi come opportunità di riflessione non convenzionale su quel fenomeno del tutto peculiare che è la crisi finanziaria globale.
In quel testo del 2007 (come in Giocati dal caso, che l'aveva preceduto di qualche anno) al centro della riflessione c'era lo scarto esistente - da una parte - tra la casualità, l'imprevedibilità, l'unicità di tanti fatti, e - dall'altro lato - la pretesa delle scienze sociali e dell'economia di ricondurre tutto a schemi, leggendo ogni cosa in termini di «regolarità»: nell'illusione che raccogliere dati del passato e «processarli» (come si dice spesso in un pessimo italiano) possa aiutare a predire il futuro. Come se il futuro, appunti, fosse in qualche modo prevedibile e ci fosse anche solo un granello di verità e saggezza in quanti ci ripetono che, ad esempio, l'Italia crescerà dell'1 per cento nel corso del 2014.
Nel suo ultimo volume (Antifragile. Prosperare nel disordine, edito dal saggiatore e in vendita a 24 euro) Taleb non abbandona quei temi, ma li rielabora a partire da questa termine-concetto di nuovo conio (l'antifragilità) con cui intende cogliere le caratteristiche di quelle realtà che «traggono vantaggio dagli scossoni; prosperano e crescono quando sono esposte alla volatilità, al caso, al disordine e ai fattori di stress, e amano l'avventura, il rischio e l'incertezza». Se alcune cose sono fragili, e di fronte a un urto cedono, mentre altre sono solo robuste (e reggono la scossa senza subire danni), altre sono antifragili se prosperano in un quadro contrastato e difficile.
La formazione di Taleb è nella finanza e questo volume, come i precedenti, tratta ampiamente tali temi. A chi scrive paiono felicissime le frecciate, ricorrenti nel testo e sempre a ragione, contro quell'establishment intellettuale che egli definisce sovietico-harvardiano: che ancor prima che definire le ricette impone nei fatti un metodo, che però ha più falle che punti di forza e che predefinisce, in larga misura, l'esito della ricerca stessa.
È significativo, allora, che l'autore si soffermi pure a raccontare come l'amore ossessivo sia la cosa più antifragile che esista al di fuori del mondo economico. Egli ricorda il romanzo Un amore, di Dino Buzzati, e la vicenda reale che vi era sottesa: l'innamoramento dello scrittore per una ballerina della Scala. Quella fu una passione che crebbe nelle difficoltà e anche grazie ad esse: un mirabile esempio di antifragilità che, a quanto pare, ebbe pure il suo happy end.
Come nei testi precedenti, Taleb sembra insomma invitare a una prudenza intellettuale capace di coniugarsi con un'intraprendenza pratica. Se il cigno nero è il fatto imprevisto che per definizione dobbiamo accogliere anche se non era nei nostri business plan, l'antifragilità è una struttura ricorrente di moltissimi ambiti: dove il rischio e l'incertezza sono fattori produttivi, e non già semplici minacce. Gli uomini hanno inventato le assicurazioni per proteggersi dai pericoli, ma hanno pure ideato le navi per dirigersi verso l'ignoto.
In ambito politico, ad esempio, mentre gli Stati moderni della tradizione giacobina e ancor più le grandi costruzioni sovranazionali sono strutturalmente fragilissimi, egli ritiene un modello di antifragilità la Confederazione elvetica, e questo perché si tratta «dell'ultimo grande Paese a non essere uno Stato nazionale, ma piuttosto un insieme di piccole comunità cui è permesso fare come gli pare».
Per dare forza alle proprie tesi, a più riprese Taleb tende a estremizzare la propria posizione. In vari punti si lascia prendere la mano e abbraccia una sorta di gnoseologia debole che in vario modo riconnette a Hume, Nietzsche o altri ancora, ma il messaggio centrale resta convincente e in fondo - nella sua essenza - antipositivistico. Con esiti assai liberali. Non è certo un caso se nella gran massa degli autori utilizzati figurano anche taluni capisaldi del liberalismo novecentesco: da Friedrich von Hayek a Bruno Leoni. E questo si spiega, dal momento che accogliere l'antifragilità significa abbracciare pure schemi che lasciano più spazio all'iniziativa, all'intrapresa, al nuovo.
Nel testo l'autore torna a parlare, naturalmente, anche della crisi finanziaria e ribadisce la tesi già esposta: insistendo sul fatto che il crollo è in larga misura dovuto a una rete di sicurezza posta a protezione delle banche che le ha rese apparentemente robuste e di fatto fragili, e ha impedito loro di crescere nell'antifragilità: diventando davvero imprese. Il messaggio alla fine è semplice e corretto, ed è che abbiamo bisogno del fallimento (della sua possibilità, della sua minaccia) per essere indotti a dare il meglio di noi stessi. Dove si pretende di eliminare la fragilità con una falsa robustezza, immaginando che il soldo pubblico possa soccorrere tutti, l'intera società si espone al rischio di un collasso totale.
La lezione di fondo - ed è questo che rende il libro interessante, e non soltanto fascinoso e divertente - è che questi problemi sono in qualche modo presenti in ogni dimensione dell'esistenza. Perché alla fine la finanza è soltanto una delle molte modalità attraverso le quali gli uomini manifestano loro stessi e ricercano la felicità.
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