I tratti salienti della modernità? Prevalenza dell'azione elettiva sull'azione prescrittiva; dominio della razionalità e dunque mentalità calcolatrice; istituzionalizzazione controllata del mutamento sociale e culturale; allargamento della partecipazione politica; espansione dei sistemi di comunicazione; sviluppo scientifico; laicità della cultura; soggettivismo incontrollabile. In una sola parola: l'individualismo espresso nel modo più compiuto dalla società borghese. Si tratta, in sostanza, del volto «socio-culturale» del capitalismo: modernità e capitalismo sono due facce della stessa medaglia.
I nemici della modernità? Coloro che non accettano i risultati della società aperta. Lo sappiamo: nella prima metà del Novecento sono stati soprattutto il comunismo, il fascismo e il nazismo. Negli ultimi settant'anni, tuttavia, a questi movimenti totalitari si sono aggiunti altri soggetti politici e culturali, tutti ostili alla società industriale e ai suoi valori. Le loro critiche più ricorrenti sono sintetizzabili in questo modo: la modernità ha fallito perché le sue premesse razionalistiche hanno portato all'insignificanza generale. Sono finiti i macro saperi, le grandi sistemazioni teoriche, le cartografie cognitive globali, cioè le cosiddette «meta-narrazioni» quali teorizzazioni dell'avvento delle certezze scientifiche e delle fondazioni esaustive del sapere. Non esistono più fondamenti ultimi e immutabili, né un unico, globale orizzonte di senso. Si è dispersa la totalità significante e universale della storia e ogni idea di superamento fondata su una direzione univoca e lineare del processo storico. Con la dissoluzione del concetto di progresso è venuta meno la categoria del nuovo, per cui si vive in un magma privo di vere rotture e di veri slanci. Nella società odierna l'esistenza umana è priva di ogni autenticità e di ogni disegno positivo e trascendente, tranne quello della prosaica ricerca del benessere personale.
Di qui, per risposta, l'emergere delle «filosofie della crisi», le cosiddette «filosofie radicali», veri farmaci per gli «orfani di Dio», ovvero per gli intellettuali rivoluzionari frustrati e macerati, tutti accomunati dalla medesima mentalità millenaristico-apocalittica, che non accetta la banale finitudine e la perdita di senso impressa dalla secolarizzazione iniziata con l'età dei lumi. Un esercito eterogeneo pervaso, tuttavia, da uno spirito comune: il catastrofismo.
Per quanto riguarda il nostro Paese, questo quadro generale è ora ricostruito da Elio Cadelo e Luciano Pellicani, Contro la Modernità. La radici della cultura antiscientifica in Italia, (Rubbettino, pagg. 174, euro 12). Per Cadelo e Pellicani l'indice più evidente (e preoccupante) del rifiuto della modernità è rappresentato dal profondo disprezzo verso il mondo della scienza.
Nei primi decenni del Novecento gli intellettuali di estrazione umanistica - si pensi solo ai nomi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile - hanno di gran lunga prevalso rispetto ai grandi esponenti del sapere scientifico e matematico come Giovanni Vailati, Federico Enriques, Giuseppe Peano; ugualmente ciò è avvenuto nei confronti dei pensatori che si rifacevano al lascito illuministico e positivistico come Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Guglielmo Ferrero. Nel secondo dopoguerra, a partire dagli anni Sessanta, il rifiuto della modernità è stato emblematicamente rappresentato, ad esempio, da Pier Paolo Pasolini, con la sua reazionaria e provinciale idealizzazione del mondo contadino e la conseguente demonizzante della società dei consumi.
Negli anni Sessanta il marxismo, che si autoproclamava scientifico, si è in realtà incrociato con la Scuola di Francoforte, nemica della tradizione illuministica e liberale. Uno dei suoi esponenti più noti, Herbert Marcuse, vedeva nella scienza e nella tecnica soltanto degli strumenti perversi al servizio della società capitalistico-borghese, la quale, per tale motivo, era bollata quale regime totalitario. A giudizio di Cadelo e Pellicani il deterioramento della cultura scientifica italiana si è poi aggravato con la contestazione studentesca, risoltasi in una reazione ideologica contro la modernità e gli imperativi della società industriale. A dimostrazione dello spirito antiscientifico che da tre decenni inquina la cultura italiana si può qui ricordare l'enorme fortuna di un autore idolatrato a destra come a sinistra: Martin Heiddegger, visto quale perfetta espressione della superiorità della pura speculazione teoretica a fronte della volgare manipolazione tecnica del mondo.
Ma i nemici più acerrimi della scienza e della tecnica, veri profeti di sventura, sono oggi rappresentati dai guru dell'ecologismo radicale verso il quali gli autori lanciano i loro strali più acuminati. Un nome per tutti: Serge Latouche, ascoltato predicatore della decrescita felice con il suo ossimoro divertente - si fa per dire - dell'«abbondanza frugale» (!).
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