Per gentile concessione dell'editore Rizzoli, pubblichiamo un brano del nuovo libro di Giampaolo Pansa, Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi, nelle librerie dall'11 settembre. Il brano è tratto dal capitolo «Borghesia rossa. 1976», e illustra gli (auto)inganni, le ipocrisie e i malintesi slanci rivoluzionari di una classe sociale e politica.
In quel tempo [1976, ndr ] stavano muovendo i primi passi le bande del terrorismo di sinistra, le Br con la stella a cinque punte. Era facile intuire chi fossero e dove ci avrebbero portato. Eppure la borghesia progressista rifiutava di prendere atto dell’esistenza di un inferno che stava nascendo sotto i suoi occhi. Fu un esempio clamoroso di negazionismo che crebbe giorno per giorno, grazie a una serie di errori compiuti senza batter ciglio. Il primo fu di pensare che non esistesse nessun clandestino armato. Le Brigate rosse erano soltantogruppuscoli fascisti, travestiti da proletari comunisti. In seguito si cominciò a dire che sitrattava di provocatori messi in campo dall’estrema destra. Vennero di moda etichette ipocrite. Le sedicenti Brigate rosse, le fantomatiche Br. Guidate da un tipo equivoco, un certo Renato Curcio, allevato nei campi paramilitari di Ordine nero. Quando risultò impossibile negare la realtà, venne inventata una formula nebbiogena: sono compagni che sbagliano.
Chi lavorava come me in giornali senza paraocchi, e La Stampa diretta da Ronchey era uno di questi, s’imbatteva di continuo in menzogne che lasciavano stupefatti. Soprattutto perché venivano da ambienti professionali in qualche modo espressione della borghesia intellettuale. Nel novembre 1969, in via Larga a Milano, quando l’agente Annarumma era morto trafitto da un tubo d’acciaio, lanciato contro la camionetta che pilotava, molti sostennero che si era ammazzato da solo. Compiendo una manovra errata con il gippone. L’attentato di piazza Fontana fu subito attribuito alla destra, cancellando tutti i misteri attorno alla strage. La fine oscura dell’anarchico Giuseppe Pinelli venne addossata al commissario Luigi Calabresi, destinato a morire assassinato per una colpa che non aveva commesso. Nel marzo 1972, quando l’editore Feltrinelli morì sul traliccio che tentava di far saltare, ebbe inizio una sarabanda bugiarda che mirava ad accreditare una sola versione: il compagno Osvaldo era stato ucciso da qualche servizio di sicurezza.
Soltanto poche testate sfuggirono a questa giostra di bugie. Non certo i giornali di sinistra,come l’Unità e Paese sera . Anche il Corriere d’informazione , l’edizione pomeridiana del Corriere della Sera , sostenne che l’editore era stato eliminato da agenti segreti. L’avevano rapito, portato in un rifugio clandestino, narcotizzato, condotto ai piedidel traliccio e poi finito. In quei giorni si teneva a Milano il congresso nazionale del Pci. E neppure Enrico Berlinguer, il vice di Luigi Longo, si trattenne
dall’accennare a uno sfondo oscuro del delitto. Dalla tribuna disse: «Le spiegazioni che vengono date non sono credibili. È pesante il sospetto di una spaventosa messa in scena».
Il caso Feltrinelli rivelò che la borghesia rossa era anche cieca e sorda. Si rifiutò di accettare persino la rivendicazione di Potere operaio. Il giornale dei Potop uscì con un titolo di prima pagina che diceva: Un rivoluzionario è caduto . Nel necrologio si leggeva che l’editore aveva dato la vita «nella guerra di liberazione dallo
sfruttamento». Sette anni dopo, nel corso del processo Gap- Feltrinelli- Brigate rosse, in un documento letto in aula prima della sentenza, i brigatisti imputati rivelarono che cosa fosse accaduto all’editore: «Il compagno Osvaldo era impegnato in un’azione di sabotaggio ai tralicci dell’alta tensione. Voleva provocare un black- out in una vasta zona di Milano, per garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi».
Il comunicato proseguiva così: «Ma il compagno Osvaldo aveva commesso un errore tecnico. Era la scelta e l’utilizzo di orologi dalla bassa affidabilità se trasformati in timer. In questo modo aveva sottovalutato gli inconvenienti di sicurezza. Determinando l’incidente mortale e il conseguente fallimento di tutta l’operazione ».
La borghesia rossa non tenne conto neppure delle spiegazioni fornite dai brigatisti. Nel frattempo continuava a dare la caccia ai fantasmi. Seguendo un percorso che nessuno aveva deciso, ma in grado di condurre migliaia di persone allo stesso punto d’arrivo: le Brigate rosse non esistevano. Il guaio è che si trattava quasi sempre di eccellenze in grado di fare opinione nei loro ambienti: docenti universitari, scrittori famosi, politici, intellettuali e naturalmente giornalisti.
L’esistenza di questo fronte negazionista l’avevo già constatato nell’aprile 1974 durante il sequestro del sostituto procuratore Mario Sossi, rapito a Genova dalle Brigate rosse e tenuto in ostaggio per un mese. Era il primo sequestro di lunga durata attuato dai brigatisti e in seguito apparve la prova generale del rapimento di Aldo Moro.
In quell’epoca lavoravo per il Corriere della Sera guidatodaPiero Ottone e venni mandato a Genova per raccontare gli sviluppi del sequestro. Rimasi sul posto per più di un mese e mi resi conto di come si muoveva la borghesia di sinistra. Non voleva accettare la verità, ossia che si trattava di un’operazione di puro terrorismo rosso. Diretta a obbligare lo Stato, rappresentato dalla magistratura genovese, a rimettere in libertà un gruppo ribelle che avevo descritto tre anni prima sulla Stampa , chiamandoli i tupamaros di Genova.
Quella mia inchiesta non era piaciuta per niente al Pci e mi aveva meritato i rimproveri dell’ Unità . Il giornale comunista sosteneva che non si trattava di una banda politica, ma soltanto di criminali comuni. E non contava nulla che si ispirassero al terrorismo sudamericano e agli scritti di Carlos Marighella, un terrorista brasiliano ucciso dalla polizia in un’imboscata nel novembre 1969.
Marighella aveva sfornato un Piccolo manuale della guerriglia urbana . La traduzione italiana era stata trovata a Genova durante le indagini su una banda rossa, la XXII Ottobre, ritenuta colpevole di rapine e di almeno un sequestro di persona: il rampollo di una ricca famiglia genovese. Nel testo si leggeva: «La guerriglia urbana èsoltanto un momento della lotta rivoluzionaria, è solo il primo passo verso l’organizzazione della guerriglia di campagna, quella dei contadini, e poi di un esercito di liberazione nazionale che abbatterà la dittatura del capitalismo ». Ma le sinistre erano cocciute. Continuarono a pensare che quelli della XXII Ottobre fossero volgari delinquenti e nient’altro. Soltanto l’inviato del quotidiano della Fiat, ovvero il sottoscritto, aveva fatto “la scoperta”fantasiosa di ritenerli terroristi politici.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.