Di Roberto Vivarelli, scomparso l'altro ieri a 84 anni, il largo pubblico ha sentito parlare solo nel 2000, in occasione della pubblicazione di La fine di una stagione. Memorie 1943-1945 (Il Mulino). Il libro conteneva una sorta di rivisitazione autobiografica della guerra civile in cui l'autore affrontava la sua dolorosa scelta di correre, quattordicenne, a Salò per abbracciare la «causa sbagliata» della Rsi. Eravamo in quegli anni nel vivo della polemica sul «revisionismo storico», etichetta denigratoria con cui si usa bollare ogni riflessione sul fascismo che non si iscriva a pieno titolo nel «politicamente corretto». Vivarelli non sfuggì alla condanna. Il suo coraggioso tentativo di fare i conti con una pagina lacerante fu lasciato cadere, senza troppi riguardi nei confronti di una figura di studioso e di ricercatore che meritava altra accoglienza. Il professore emerito della Scuola Normale superiore di Pisa, uno dei pochi storici italiani apprezzati anche all'estero, era pur sempre un acclarato studioso, e proprio del fascismo.
Ma forse sta proprio in questa sua qualità di serissimo ricercatore «al di sopra di ogni sospetto», qualità peraltro esaltata dall'aura di autentico democratico che si era conquistata con i suoi studi su Gaetano Salvemini, che va individuata la ragione dell'accanimento con cui fu silenziata la sua «provocazione». Vivarelli non era un nostalgico. Allo studio del fascismo si era dedicato da quando, con la Liberazione, gli si era squadernata davanti agli occhi la «verità», ossia di essersi schierato dalla «parte sbagliata». Quella colpa lo indusse a dedicare la vita allo sforzo di chiarire come sia stato possibile che, lui e, come lui, migliaia di altri giovani nel '43 nonché milioni di italiani nel corso del Ventennio, si fossero decisi ad abbracciare una dittatura. La spiegazione che si diede è che nella rielaborazione dei propri lutti va, sì, distinta la causa «giusta» da quella «sbagliata» ma anche che «ci si può mantenere integri indipendentemente dalla parte in cui si milita». Ma alla coscienza nazionale ha sempre fatto buon gioco rimuovere con l'oblio le proprie compromissioni col regime e scaricare sulle spalle dei «ragazzi di Salò» il peso di una colpa collettiva.
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