Quando qualcuno dichiara di essere depresso l'interlocutore di norma gli domanda «perché?», mentre nessuno lo chiede se ti senti felice, anche perché hai paura di sentirti dire cose che ti deprimono. È anche per questo che l'infelicità genera romanzi interessanti, la felicità solo stronzate: è facile immaginare un genio depresso, difficile immaginarne uno felice. Nella depressione oltretutto spesso il mondo appare senza veli, lo spiegava bene già Leopardi: la lucidità è impossibile da sostenere, abbiamo un costante bisogno di illusioni. Condizione confermata dalle odierne neuroscienze e dalla biologia evolutiva: il nostro cervello produce continuamente finzioni, per proteggerci da una visione troppo oggettiva delle cose.
Confesso che ero molto sospettoso del nuovo romanzo di Christian Frascella, dedicato agli attacchi di panico dell'omonimo protagonista, che lavora in fabbrica, a Torino, alla catena di montaggio della Fiat. Poiché ci sono due tipi di luoghi comuni sulle patologie mentali: sono la malattia dei ricchi, oppure sono la malattia dei poveri, nei Paesi ricchi. Tra l'altro è un libro targato Einaudi, bellissima e storica casa editrice ma con inguaribili tendenze sociologiche per quanto riguarda la narrativa italiana, e temevo che Frascella la buttasse sul panico da crisi economica. E invece un cavolo: Frascella è il nuovo Giuseppe Berto, e Il panico quotidiano è il degno upgrading de Il male oscuro. Tra l'altro, probabilmente per coincidenza, come nel romanzo di Berto anche nel romanzo di Frascella il padre del narratore è malato di cancro all'intestino. Ma il parallelismo a Berto è solo un richiamo obbligato: piuttosto c'è un senso esistenzialmente kafkiano nell'insorgere improvviso della malattia. Come Gregor Samsa si risveglia scarafaggio, Frascella si ritrova da un momento all'altro nell'essere in preda a una paura senza nome, incomprensibile, un mostro che lo divora dall'interno e che raccoglie scarsa solidarietà: nessuno ti capisce. È sentirsi la morte addosso, dentro, ovunque, un buio che ti inghiotte, ti toglie il respiro. Inoltre il panico genera panico: «La parte peggiore non erano tanto le crisi di panico, quanto l'attesa dell'eventualità che si verificassero. Il che generava una continua confusione, perché l'attesa del panico era già una forma di panico. Come il cane che si morde la coda, se non ti curavi continuavi a girare su te stesso: paura, paura della paura, paura della paura della paura». Così Christian in breve tempo si trasforma in un'altra persona. Isolato sul posto di lavoro, dipendente da psicotici e benzodiazepine, rinchiuso in casa, sarà lasciato solo anche dalla fidanzata: chi soffre di attacchi di panico fa un po' rabbia, quasi fosse colpa sua. È come con la depressione: perché sei depresso? Idem per l'attacco di panico: di cosa hai paura?
È in fondo un'altra delle grandi illusioni della nostra coscienza: avere il pieno controllo delle proprio stato mentale, rifiutare la realtà organica, materiale, meccanica, del nostro cervello. Che per la maggior parte lavora a nostra insaputa, sotto i pochi millimetri della neocorteccia prefrontale. Talvolta, come racconta Frascella, scatta addirittura la paura del contagio, e il malato viene trattato da appestato: «Appena accennavo al mio problema, ecco che l'atteggiamento nei miei confronti cambiava radicalmente. Subentrava la diffidenza, avevano paura che il mio problema li intaccasse, sporcasse, rovinasse - che, frequentandomi, si esponessero al rischio. Loro e chi gli stava vicino». Un terrore della contaminazione sintomatico proprio di una mancanza di consapevolezza popolare sugli equilibri chimico-fisici alla base dei nostri stati d'animo, quasi che la malattia mentale potesse insorgere per suggestione.
Invece basterebbe pensare a cosa sarebbero perfino l'amore e il sesso senza l'attivazione dei neurotrasmettitori giusti; la depressione e gli attacchi di panico sono l'altra faccia di una medaglia neurologica molto complicata.
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