Nel 1972 Leonardo Sciascia pubblicava una sintetica ma interessante La storia della mafia sulle pagine di Storia illustrata. Da allora è stata riedita nel 1976 su Libération; poi nel volume di Fabrizio Calvi, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (Rizzoli, 1986); quindi nei Quaderni radicali (1991). Già reperibile in rete, oggi è ristampata dal rinato marchio Barion con una nota di Giancarlo Macaluso e postfazione di Salvatore Ferlita (Leonardo Sciascia, La storia della mafia, pagg. 72, euro 8).
È dunque un testo noto ma ancora sorprendente, non solo per la concisione con cui lo scrittore ricostruisce le vicende siciliane dalla fine del XVIII secolo fin quasi ai giorni nostri e il significato della parola (che appare per la prima volta in un documento del 1658 ove si cita la fattucchiera Catarina la Licatisa «nomata ancora maffia»). A colpire è questa definizione: «La mafia è una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato». Nelle società industrializzate, come quella americana, aggiunge Sciascia, questo tipo di parassitismo può diventare «un sistema analogo al sistema capitalistico».
Una posizione, quella di Sciascia, da confrontarsi con quella sulle «mafie» in voga grazie al Roberto Saviano di Gomorra (Mondadori), affiorante anche in testi meno impegnati quali, ad esempio, il racconto di Giancarlo De Cataldo incluso nel recente volume collettaneo Cocaina (Einaudi). Le attività criminali, secondo Saviano, non sono solo analoghe al capitalismo, come scriveva Sciascia. Sono «la legge del capitalismo» (cito da Gomorra). Il «neo-liberismo» si regge sul riciclaggio dei fondi delle attività illegali: «Tutte le merci hanno origine oscura».
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