La sociologia di Boudon: libertà e verità

S comparso l'altroieri a Parigi all'età di 79 anni, Raymond Boudon è stato un francese sui generis. Nel Paese che, soprattutto con Comte e Durkheim, ha «inventato» non soltanto la sociologia ma anche il peggiore sociologismo, questo allievo di Raymond Aron ha difeso una visione razionale dell'analisi sociale, tenendosi lontano da quella ribalta mediatica che veniva promuovendo ogni genere di retorica post-modernista, variamente estetizzante o tardomarxista.
Mentre erano celebrati sociologi come Alain Touraine e Pierre Bourdieu, egli è stato rimasto fedele al compito dello studioso, elaborando un pensiero che poggiava su un'impostazione metodologica di taglio individualista e che quindi negava capacità d'azione alle classi, agli stati o alle nazioni, facendo di ogni fenomeno sociale l'esito - in larga misura involontario - di decisioni individuali. A partire da qui egli ha concentrato la propria attenzione sull'analisi di comportamenti che, a prima vista, possono apparire irrazionali e che troppo spesso sono stati spiegati in maniera sommaria: trasformando gli uomini in semplici burattini nelle mani di forze oscure.
Nei suoi scritti egli innesta una serie di contributi provenienti da varie discipline (filosofia della scienza, psicologia cognitiva, economia) e delinea un percorso di ricerca legato alla lezione dei classici - da Kant a Weber, da Pareto a Popper - eppure assai personale. In tal modo gli riesce facile capire perché sbagli il burocrate di New Dehli che attribuisce semplicisticamente alla tradizione il fatto che i contadini abbiano spesso dieci figli (con i problemi economici che ne derivano), non avvertendo che per chi lavora la terra quel comportamento ha una sua razionalità. Tale riflessione sulle «buone ragioni» induce Boudon pure a un attento esame di quel tipo di relativismo che nega il punto di vista altrui e che in tal modo si risolve in nichilismo: con gravi ricadute in ambito etico e politico.
Legato a una versione assai moderata e istituzionale del liberalismo democratico, Boudon coglie come una moderata difesa della razionalità aiuti a salvaguardare la stessa società aperta. Quando rifiuta lo scetticismo radicale, anche nella versione del decostruttivismo, egli contrasta egualmente un mondo dominato da una prospettiva che mette ogni opzione e ogni valore sullo stesso piano. Mentre molti altri «chierici» suoi coetanei dell'intellighenzia parigina sono venuti meno - una volta di più - ai propri doveri di pensatori, Boudon è insomma rimasto in trincea: per riflettere, dialogare, confrontarsi. Sempre gratificato dalla persuasione che la costante rincorsa del «giusto» e del «vero» - per ricordare i due termini che definiscono il titolo del suo libro del 1995, Le juste et le vrai: études sur l'objectivité des valeurs et de la connaissance - non sarebbe stata vana.


In questo senso, quanti hanno avuto la fortuna di assistere alle sue lezioni, alla Sorbona, hanno facilmente colto come egli fosse gratificato da quel lavoro intellettuale che, di tanto in tanto, sa svelare agli uomini alcuni segreti e comunque li aiuta a comprendersi e a vivere assieme.

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