Il figlio di Luigi Longo e Teresa Noce, Gino, visse a Mosca, negli ambienti del Comintern, fin dagli anni Trenta, e poi vi fece ritorno, in tempo per assistere al tramonto di Stalin. Nelle sue memorie inedite, che stiamo scandagliando in questi articoli, offre una serie di medaglioni delle figure storiche del comunismo internazionale. Nel febbraio del 1941, espulso dalla Francia, Gino Longo, giunse nella capitale sovietica con l'incarico di svolgere pressioni sulla leadership del Comintern, al fine di ottenere la liberazione di suo padre dal campo di concentramento di Vernet, in Francia, dov'era rinchiuso dal 1939. Longo figlio non riuscì a cavare un ragno dal buco, perché Mosca non mosse un dito a favore del genitore, il quale venne, sì, liberato, qualche tempo dopo, ma sulla base di un accordo tra le autorità fasciste e quelle naziste. La carrellata di primi piani sui personaggi visitati in quei giorni d'inverno del '41, è spettacolare. Cominciamo dal leader comunista francese, André Marty, il demiurgo delle Brigate Internazionali, nella guerra di Spagna, e noto come il «macellaio di Albacete»; uno stalinista fanatico e collerico. Gino Longo andò da Marty una domenica, nella sua abitazione moscovita. L'esponente dell'Internazionale rossa, che sarebbe stato espulso dal suo stesso partito, il Pcf, nel 1952, per il suo eccessivo impeto rivoluzionario, bombardò il giovane amico italiano con una sfilza di domande sulla situazione in Francia. Poi si precipitò al telefono e chiamò il segretario del Pcf, Maurice Thorez, residente anche lui a Mosca, per concordare un incontro. Una volta a casa di Thorez, Longo venne sottoposto a un secondo interrogatorio.
Per spingere a fondo il suo ricatto morale sui vari rappresentanti nazionali della segreteria del Comintern, quando ancora sperava che da Mosca potesse partire un'iniziativa per la liberazione di suo padre, il giovane Longo ebbe colloqui sia con Rákosi sia con Manuilskij.
Mátyás Rákosi, già commissario del popolo e comandante dell'Armata Rossa durante la parentesi della Repubblica dei Soviet ungherese, fu poi dal 1945 segretario generale del Pc magiaro e, come primo ministro, tra i responsabili della rivolta del '56. «Basso, tracagnotto, la testa infossata, aveva un'ampia pelata, le orecchie sporgenti ai lati e due occhietti piccoli piccoli che sembravano sfuggirti», racconta Longo. Tutt'altro tipo era invece l'ucraino Dmitrij Manuilskij tra i protagonisti della rivoluzione d'ottobre e dal 1924 membro della segreteria dell'Internazionale rossa. Così lo descrive l'autore del memoriale: «Piuttosto basso, con le spalle larghe e le gambe corte, in quegli stivali morbidi che calzava sempre, e facevano parte di quel vestire di foggia semi-militare, color verde-giallo scuro, che portavano quasi tutti i capi storici sovietici, a cominciare da Stalin. Aveva i capelli folti e i baffi a cespuglio brizzolati, occhi vispi, molto intelligenti».
Durante i suoi lunghi soggiorni nell'Urss, il figlio del leader del Pci ebbe modo di conoscere da vicino molti altri capi del Comintern, come Dolores Ibárruri, la Pasionaria spagnola, ch'era madre di Amaya, ragazza di cui s'infatuò. Gino conobbe Dolores quando questa veniva a trovare la figlia: «Alta, piena di singolare dignità, sempre vestita di nero o perlomeno di scuro, coi capelli neri lievemente ondulati ed inframmezzati da fili bianchi tirati a chignon sulla nuca, appariva altera e severa, e incuteva soggezione. Per metterti a tuo agio sorrideva volentieri, ed era un sorriso dolce, anche tenero, ma di inappellabile autorità interiore. Neppur regale: da madonna». Nel settembre del 1952, mentr'era da poco tornato in Unione Sovietica per quello che si sarebbe rivelato il più lungo dei suoi soggiorni russi, Gino Longo ricevette una misteriosa telefonata dal Comitato centrale del Pcus. Lo si voleva interprete, al Cremlino, per i consessi internazionali che vi si svolgevano. Così l'ormai trentenne «figlio del partito», entrò nel pool dei traduttori simultanei. In tale veste, ebbe modo di osservare da distanza ravvicinata i big del comunismo mondiale. Dell'ex calzolaio Lazar Kaganovic, fedelissimo di Stalin, ricorda che «negli interventi a braccio era focoso e brillante, ma per iscritto non sapeva mettere insieme quattro parole». La figura di Georgij Malenkov, per breve tempo successore di Baffone, è delineata come segue: «Assolutamente incolore, senza idee, dotato però di una grande capacità di lavoro, era il tipico e alquanto pedestre esecutore di direttive altrui». Quanto a Molotov, il ministro degli Esteri di Stalin, era un oratore insicuro, afflitto da un difetto di pronuncia che lo faceva procedere incerto. E l'autocrate del Cremlino? «Stalin per un interprete era l'oratore ideale. Parlava piano, pacato, lentamente, marcando le inflessioni, per cui neppure l'accento georgiano risultava d'ostacolo. Le frasi erano brevi, le parole semplici, i concetti elementari, la logica ferrea. Didascalico, concetti ed affermazioni te li martellava, non disdegnando le ripetizioni».
Ma il nostro testimone racconta anche un episodio inquietante di quell'unica volta in cui tradusse Stalin, nel corso del XIX congresso del Pcus, nel settembre del '52. Per rappresentare la necessità che il verbo del condottiero dovesse passare, da una lingua all'altra, senza la minima contaminazione, calò una presenza armata che aveva il sapore di una fosca intimidazione: «Pochi minuti prima del momento in cui Stalin doveva iniziare a parlare, nella nostra saletta degli interpreti irruppero, tirati a lucido, ben otto militari in uniforme da parata... che imbracciavano ciascuno un mitra nero...
Nel silenzio più assoluto andarono a piazzarsi, gambe divaricate e mani sul mitra, pronti a sparare, tanto dinnanzi ad ognuna delle nostre cabine quanto all'ingresso della saletta, che in due bloccarono; per ritirarsi poi, sempre in silenzio, non appena il padre dei popoli ebbe finito il suo discorso».(7. Continua)
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