Il romanzo storico non è un terreno agevole. Chi ci si avventura è costretto a ricostruire i fatti con acribia da studioso e deve, contemporaneamente, possedere abbastanza fantasia e penna per rendere la narrazione affascinante. Uno sgarro da un lato o dall'altro e il disastro è garantito. Non parliamo poi di quando, con grande azzardo, ci si avventura su periodi storici ancora ideologicamente «caldi». Lì è alto il rischio di trasformare il tutto in farsa politicizzata. Non bastasse, ci sono le vestali della memoria (copyright Giampaolo Pansa) di entrambe gli schieramenti sempre pronte a linciare il malcapitato appena scalfisce le loro verità di comodo.
Scusate l'introduzione tediosa, ma non sarebbe possibile parlare del romanzo appena pubblicato da Pietro Neglie, Ma la divisa di un altro colore (Fazi, pagg. 508, euro 14,90) senza questa piccola premessa. Perché? Perché Neglie, che è stato allievo di Renzo De Felice ed è un contemporaneista di vaglia, ha deciso di rischiare grosso. Il suo è un affresco a due voci che parte durante la Prima guerra mondiale e si conclude subito dopo la caduta del fascismo, mentre l'Italia tenta faticosamente di rimettersi in piedi dal disastro bellico.
In mezzo, due destini incrociati: quelli dell'elettricista romano Carlo e del contadino friulano Antonio. Entrambi fanti nelle trincee, entrambi coinvolti nella rotta di Caporetto, e poi nell'avanzata di Vittorio Veneto, affrontano insieme privazioni e proiettili. Insieme sognano di tornare a casa e di vivere finalmente in un'Italia migliore.
Poi la storia li divide. Il primo diventa convinto fascista, mette su famiglia e si trova a dover conciliare il pranzo con la cena per una miriade di figli, il tutto nelle ambasce della crisi del '29. Il secondo, quando la terra che gli era stata promessa durante la guerra non arriva, diventa prima socialista e poi comunista. E seguendo l'intrecciarsi delle vicende di questi due amici, ormai lontani e sui due lati della barricata, Neglie racconta nei dettagli un'epoca densissima. Il lettore incontra la durezza del fascismo agrario, la fuga degli esuli antifascisti, la politica di dominio ideologico dell'Urss, la crudeltà della Guerra di Spagna, il voltafaccia di Badoglio e la fuga del Re, l'orgoglio di chi non vuol passare da traditore dei tedeschi, la lotta partigiana, l'orrore delle foibe e i regolamenti di conti.
Come e quando i due amici, ormai di mezza età si incontreranno di nuovo, non è giusto svelarlo al lettore. Però si può dire che Neglie, armato del mestiere dello storico, sfugge a tutte le trappole dell'ideologia (e quindi farà arrabbiare più di qualcuno). Il comunista Antonio, da esule in Francia (è fuggito quando i fascisti gli hanno ucciso brutalmente il padre), quasi subito scopre quanto siano faziosi e ideologici i leader del partito, manipolati come burattini dall'Urss. Mentre combatte allo stremo in Spagna vedrà tutte le violenze contro gli anarchici, partigiano in Italia vedrà la propria donna infoibata dai titini, ai quali la rivoluzione proletaria interessa assai meno che il fare piazza pulita di tutti gli italiani. Il fascista Carlo pagherà invece in prima persona tutte le bugie del regime, vedrà la ferocia delle esecuzioni sommarie delle camicie nere in Spagna, si scoprirà ferito e vulnerabile ma, salvato da un'anarchica, andrà a Salò disgustato da Badoglio per scoprire le atrocità e il disprezzo degli occupanti tedeschi, si ritroverà sconfitto in un Paese «dove prima tutti erano fascisti e adesso non lo è più nessuno», e verrà ostracizzato per la sua coerenza, sarà vittima di colpe, in gran parte non sue, che ad altri, molto più furbi e molto più voltagabbana, non verranno mai contestate.
Ne esce un affresco denso e bello, adatto per ponderosità di pagine a lettori forti, che riga dopo riga ci mette sotto gli occhi un'Italia lacerata nel profondo. Guardarla è salutare. Ci dà una chiara idea di come certe fratture si siano trascinate sino al presente. Aiuta a capire come non sia possibile separare i buoni dai cattivi a partire dalla divisa che hanno portato addosso. Come dice il comunista Antonio, isolato e avversato perché non filosovietico e troppo italiano: «Non siamo tutti uguali noi vincitori... Sai forse ha ragione il mio segretario... dice che ho una coscienza politica troppo sottile. Eppure adesso sono ancora più convito che in questi due anni terribili di guerra civile avere indossato una divisa o l'altra spesso è stato solo frutto del caso. Il tuo nemico avrebbe potuto essere il tuo amico in condizioni differenti, e i tuoi amici diventare nemici... Lassù, al confine con gli slavi, ne abbiamo avuto un assaggio».
Magari è un ragionamento amaro, magari è un ragionamento che non piace, perché pensare che la ragione stia da un lato solo (possibilmente il nostro) è comodo e rassicurante. Peccato che la storia a questo giochetto di semplificazione non ci stia.
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