Veneto, il gigante economico è ancora un "nano" politico

Nel ventennio della seconda Repubblica la regione ha accresciuto il ruolo di locomotiva del Paese. Ma resta il... Gattopardo del Nord

Veneto, il gigante economico è ancora un "nano" politico

È la storia di una grande incompiuta. Di una promessa mancata. Di una corsa entusiasmante punteggiata di aspettative, ma terminata prima del traguardo. È la storia del Veneto della Seconda Repubblica. Un ventennio carico di progetti, ricco di risorse umane e economiche. Un'epoca farcita di tentativi e personalità emergenti. Sui quotidiani nazionali il Veneto è ribattezzato «locomotiva d'Italia», regione trainante del Nordest, l'area con il più alto tasso di crescita del Paese. Doveva diventare la Baviera d'Italia. Invece.
Perché la locomotiva non è riuscita a portare il treno a destinazione? Di chi sono le colpe? Le cause vanno ricercate nella mancanza di leadership locale del centrodestra e nella carenza di visione di Giancarlo Galan, il governatore che per quindici anni è stato al timone della regione? Oppure nelle divisioni interne alla Lega - il maroniano Flavio Tosi e il bossiano Luca Zaia - incapace di conquistare un grado di autonomia sufficiente dal quartier generale «lumbard»?
Sono tanti gli interrogativi che attraversano I padroni del Veneto, documentato saggio di Renzo Mazzaro (Laterza, pagg. 296, euro 16), giornalista del gruppo Espresso-Repubblica che si occupa di politica e regione da 25 anni. Il viaggio comincia con il sorpasso leghista sul Pdl alle ultime regionali e l'avvento di Zaia, «il Gattopardo del Veneto», con i «vecchi padroni che saltano nel nuovo corso», sempre seduti nei consigli d'amministrazione giusti come quello del Consorzio Venezia Nuova che sforna progetti e finanziamenti a rotta di collo per il Mose. Intanto Galan ha metabolizzato le sconfitte locali e iniziato una carriera romana...
Ma per capire che si cambia tutto «per non cambiare niente», bisogna ricominciare dall'inizio e radiografare il sistema di potere che proviene dalla Prima Repubblica, gli imprenditori che lavorano per il sistema pubblico, i gruppi industriali, le grandi infrastrutture da costruire con capitali privati e appalti assegnati a discrezione. Mazzaro non trascura nulla e, con cifre e testimonianze, cuce i fili di un potere e di un sottogoverno che viene da lontano. Voltata pagina dopo la tabula rasa di Tangentopoli che azzera un'intera classe dirigente e manda in pensione i notabili democristiani, da Carlo Bernini a Franco Cremonese, fautori del miracolo del Nordest, il Veneto ha la possibilità di essere artefice del proprio destino. Invece, come osservò Sergio Romano sul Corriere della Sera, questa terra, grande «forza economica», rimane «un nano politico». Non che manchino personalità a loro modo carismatiche, dal sindaco-sceriffo di Treviso Giancarlo Gentilini al sindaco-filosofo Massimo Cacciari fino a Galan, terminale berlusconiano in Laguna, e alle figure ruspanti, desiderose di rinnovamento di area leghista. Ma appena alzano la testa, arrivano i diktat di Roma e Milano. La classe dirigente locale è protagonista di un «pendolarismo incessante» il cui risultato è che «il Veneto di Bernini e De Michelis era molto più autonomo di quello di Galan e Zaia».
Passato il ciclone di Tangentopoli e azzerati gli ex dc a tutto vantaggio degli ex liberali allevati nel pensatoio di Luigi Migliorini (lo stesso Galan, Niccolò Ghedini, Enrico Marchi e Fabio Gava), le leve del potere sono saldamente in mano al centrodestra. Si progettano le infrastrutture, il potenziamento dei collegamenti stradali e ferroviari, quello del porto di Venezia. Ma, con l'eccezione del passante di Mestre, tutto rimane sulla carta. Oggi «il Veneto è più marginale di prima rispetto agli equilibri nazionali ed europei. Ci mancano le connessioni con il resto d'Europa», osserva Massimo Carraro, sconfitto alle regionali del 2005 dal solito Galan. «Non è stato fatto nulla verso nord. Nulla per l'alta velocità ferroviaria». A parità di distanza, per andare a Milano da Padova ci vuole il doppio di tempo che per andarci da Bologna.
Ciò che è mancato è una visione complessiva, un'idea di futuro. Anche il famigerato «modello veneto», quello secondo il quale il Nordest sarebbe una sorta di Baviera italiana, è una svista. «Non c'è mai stato nessun modello in questa regione», sentenzia Paolo Marzotto, uno dei fratelli della dinastia di Valdagno: «Solo un caotico sistema di crescita senza nessun disegno». Il Veneto ha una base etico-sociale buona, dei valori consolidati, la famiglia come motore economico, un'ottima capacità imprenditoriale, una tradizione contadina che è sinonimo di senso del dovere e resistenza alla fatica. Ma tutto questo ha dato vita a uno «sviluppo senza guida». Come sintetizzò a un convegno a Venezia Francesco Giavazzi, i fili si tirano altrove: Il Gazzettino è stato venduto a Caltagirone, un costruttore romano, «gli imprenditori veneti più importanti, tipo Benetton, sono sudditi di Roma» per via delle tariffe autostradali manovrate dal Cipe, le banche, a cominciare da Antonveneta rilevata da Montepaschi, hanno la testa fuori regione.
Per il sociologo Ulderico Bernardi è una questione di «riservatezza». I veneti non sono bravi a vendersi, a proporsi. Preferiscono lavorare che parlare. Questa è una «persistenza culturale» difficile da scalfire. È una radice identitaria che rende i veneti tradizionalmente diffidenti anche nei confronti delle promesse di cambiamento della sinistra. Tanto più se questa diffidenza si scontra con gli errori strategici dei leader in campo. Dopo Tangentopoli, per esempio, è Rosy Bindi a commissariare quel che resta della vecchia Dc. Ma l'ordine è «tagliare con il passato», anche se questo si chiama Tina Anselmi. Sulla sua candidatura in Regione che avrebbe trovato anche i consensi di Rifondazione, la Bindi porrà un veto insormontabile e autolesionista. Anche l'attivismo di Cacciari con il Partito dei sindaci prima e il Movimento Nordest poi non riuscirà a sfondare, azzoppato dagli stop centralisti e da una certa intrinseca astrattezza. Resuscitare il partito dei cattolici, come qualcuno vagheggia? Sarebbe «come tentare una selezione della razza quando non hai più la razza», taglia corto Graziano Debellini, l'imprenditore leader di Cl in regione.


Così, il Veneto è ancora lì, in piedi, deciso a resistere anche sotto i colpi della crisi. Continuando a fare come ha sempre fatto mentre attorno tutto crolla. E come fanno certi pugili che, per non soccombere, «fanno appello alle risorse morali».

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