Giulio Giorello, classe 1945, si è laureato in filosofia nel 1968 e in matematica tre anni dopo. Ha insegnato in diverse università italiane, tra cui il Politecnico di Milano. Presidente della Società di logica e filosofia delle scienze, si è occupato di storia e filosofia della matematica e della fisica, oltre a dedicarsi a tematiche politiche (con particolare riguardo al libertarismo) ed economiche, approfondendo la prospettiva «neoutilitarista». È autore di una vasta produzione saggistica e abile divulgatore.
Se dicessi che ogni teoria o legge scientifica, anche la più accreditata, è provvisoria; ossia che è solo in attesa che un'altra venga a soppiantarla, direi una inesattezza?
«Rispondo con le parole del grandissimo matematico Bruno de Finetti, il creatore della concezione soggettivistica delle probabilità: Si hanno, di quando in quando, delle scoperte che contraddicono quelle stesse concezioni che la Scienza aveva assunte come propri fondamenti (ed...) erano assurte così quasi al valore di dogmi. Sotto l'assillo della crisi si sviluppano allora concezioni nuove che si affermano al posto delle concezioni di ieri divenute false; sulla nuova base si appoggia la nuova Scienza fino alla prossima crisi. Cito da un suo testo filosofico, L'invenzione della verità del 1934, che è rimasto inedito fino al 2006, quando, recuperato dalla figlia Fulvia de Finetti, è stato pubblicato dall'editore milanese Raffaello Cortina. Non si potrebbe definire la questione in modo migliore!».
Secondo alcuni, a partire dalla meccanica quantistica, a inizio del secolo scorso, la fisica ha smesso di essere una scienza esatta per diventare probabilistica, perlomeno nel mondo dell'infinitamente piccolo. Che ne pensa?
«Il carattere intrinsecamente probabilistico della fisica quantistica è il punto distintivo della scuola di Copenaghen e di Gottinga. Ma è noto che non sono mancati autorevoli critici, a cominciare proprio da uno degli iniziatori della nuova fisica, Albert Einstein. Chi non ricorda la sua battuta: Dio non gioca a dadi col mondo? La sua sfida a quella che era divenuta celebre come l'interpretazione ortodossa, anche se il grande avversario di Einstein, il danese Niels Bohr, detestava qualsiasi impiego del termine ortodossia nella scienza, è stata portatrice di importanti sviluppi per la fisica del nostro Novecento. E non solo, lo scisma Bohr-Einstein, come è stato chiamato, è stato anche un esempio di una profonda controversia filosofica».
Partendo dall'idea che nessun esperimento scientifico è in grado di dimostrare in modo incontrovertibile la validità di una teoria scientifica, Wittgenstein scriveva: «Che il sole sorgerà domani è solo un'ipotesi». Come mai tutto questo non mina la fiducia che riponiamo nella scienza? Forse perché la tecnologia, che su di essa si fonda, sembra funzionare così bene?
«Wittgenstein riecheggiava David Hume e Bertrand Russell. Sono abbastanza convinto anch'io che domani il sole sorgerà, ma mi guarderei da qualsiasi certezza assoluta. La scienza ci consegna una rete di ipotesi, ma questo è il bello del teorizzare! Perché le ipotesi della scienza sono incessantemente sottoposte a controlli di osservazione e di esperienza e qui sta anche la rilevanza per lo sviluppo tecnologico. Ma tale rilevanza è un indizio che siamo su una buona strada, e di nuovo non una conquista assoluta. Altrimenti, non solo non ci sarebbe più crescita della conoscenza, ma nemmeno progresso della tecnica».
Secondo lei la scienza oggi si pone dei limiti ricercando solo le verità che ritiene alla sua portata o tenta ancora di spingersi oltre? Origine, infinito, eternità, fine ultimo, anima: non è forse vero che la scienza scappa a gambe levate davanti a simili interrogativi?
«La scienza è anche capace di regolare le proprie ambizioni. Non cerchiamo più il moto perpetuo dopo decenni di termodinamica. Proprio un grandissimo fisico come Enrico Fermi spiegava in alcune esemplari lezioni di quella disciplina che anche la consapevolezza di una impossibilità può essere un bel risultato. La scienza non scappa a gambe levate dai problemi importanti: lavora, semmai, a ridefinirli in un contesto adeguato per arrivare a soluzioni controllabili empiricamente. Anche, talvolta, come avviene quando si parla di infinito in matematica o di origine delle specie nella teoria dell'evoluzione».
Quando parliamo di verità, che cosa intendiamo? Per alcuni la verità è soltanto una faccenda che riguarda il linguaggio, il quale è un prodotto dell'uomo. Dunque, anche la verità sarebbe un fatto umano. Lei è d'accordo?
«Mi viene in mente lo scontro tra Gesù e Pilato. Quando il prigioniero disarmato definisce cosa è la verità, il potente romano gli ha già voltato le spalle. Dovremo aspettare gli anni Trenta del Ventesimo secolo, quando il logico Alfred Tarski metterà in luce come sia impossibile stabilire la verità o la falsità di un'affermazione restando all'interno del linguaggio nel quale tale affermazione è stata formulata. Per riuscirci, per dirla con il logico Piergiorgio Odifreddi (Che cos'è la verità, Castelvecchi), è necessario salire di un gradino: occorre usare un metalinguaggio in cui si parla del linguaggio di partenza. Per capirci: se sto insegnando latino ai miei studenti, ricorro all'italiano; questo è il metalinguaggio, mentre il latino è il mio linguaggio-oggetto».
Secondo il pensiero neopositivista vero è solo ciò che è dimostrabile, verificabile. Secondo Popper una verità scientifica per risultare tale deve essere falsificabile. Lei concorda? Inoltre: tutto questo vale solo in ambito scientifico o anche in altri ambiti, per esempio in quello religioso, morale, politico, economico?
«In linea di principio sono d'accordo con Karl Popper: una proposizione scientifica è tipicamente falsificabile. Procediamo così per congetture e confutazioni. Ma questo non basta. Vogliamo anche avere successo con le nostre congetture: scoprire che si possono adattare elegantemente ai fatti; in altre parole, scoprire che talvolta colpiamo davvero il bersaglio. Ma successi del genere sono, come ho già detto, incentivi ad andare avanti, non a riposare quietamente in qualche verità assoluta. Gli altri ambiti non sempre realizzano questo ideale. Ma anche qui lasciamo spazio alla buona argomentazione».
Lei ritiene che prima o poi la scienza possa regalarci l'immortalità, ammesso che sia auspicabile? E riguardo alla questione dell'origine dell'universo, sempre che un'origine vi sia stata, possiamo sperare in una spiegazione definitiva?
«Ritengo che contro la morte si debba lottare con tutte le proprie forze, anche se ciò non significa che l'immortalità sia a portata di mano! Ma questo tipo di difesa della vita è un segno che aveva ragione Baruch Spinoza: l'uomo libero non si compiace della morte; è ai frutti della vita che guarda. Quanto all'origine dell'universo c'è, di nuovo, la rete delle idee della teorizzazione scientifica. Ovviamente, niente di incontrovertibile».
Idealismo e realismo, due grandi nemici. Ci può spiegare con parole semplici questa contrapposizione che caratterizza gran parte della storia del pensiero? E lei dove si colloca?
«Il mondo è una trama di fatti, non di idee o di parole. Questo, ovviamente, non vuol dire sminuire il ruolo del pensiero o quello del linguaggio. Ma sto dalla parte della materia; la materia pensa e parla, secondo le modalità che sono emerse nel lungo processo della evoluzione naturale».
Sempre Wittgenstein scriveva che «tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull'illusione che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fenomeni naturali». Del resto, chi si sognerebbe mai di scrivere su una lavagna E = mc² e poi azzardarsi a sostenere: «Questo è il mondo»? Davvero ritiene che la realtà sia riducibile a formule matematiche?
«La famosa E = mc² non è il mondo, è solo un pezzettino del mondo. Per noi non irrilevante - pensiamo alla bomba atomica. Comunque, la formula scientifica mi pare meglio del Perché la tal cosa accade? Perché tale è la volontà di Dio!. Non voglio qui prendermela coi credenti delle varie religioni, ma sottolineare solo che certe loro risposte sostituiscono al mistero un mistero ancor più profondo. La spiegazione scientifica, come amava dire il mio grande maestro e amico, il matematico René Thom, è una riduzione di ciò che pare arbitrario nella descrizione dei fenomeni. Così era per la mela di Newton, per la teoria dell'evoluzione di Darwin, per la fisica di Einstein. Uno dei miei esempi preferiti è il seguente: ancora ai tempi di Francesco Bacone si considerava uno scherzo di Dio il fatto che il nord est del Brasile si incastra bene nel golfo di Guinea. Dopo la deriva dei continenti a partire da un super-continente originario, detto Pangea, ipotizzata da Alfred Wegener, la cosa è apparsa invece perfettamente naturale. Che i continenti si muovessero sembrava follia al senso comune di moltissimi studiosi. Ma poi la cosiddetta tettonica delle zolle ha dato ragione a quell'audace e coraggiosa teoria».
Non è forse vero che ogni modello scientifico non è che frutto di antropomorfismo? Ossia, che il mondo descritto dalle scienze è un mondo umano, fatto per occhi umani, percezioni umane, menti umane, strumenti umani? Non è forse plausibile che, come ha sostenuto Michael Dummett, il mondo come è «veramente» può essere colto solo dalla mente di un Dio?
«La scienza è umana, anzi troppo umana. Chissà come apparirebbe il mondo a un pipistrello o a un coccodrillo. Possiamo fare qualche congettura; ma la mente di Dio è più sfuggente ed elusiva di quella di qualsiasi caimano. Prima di Dummett, che ha scritto pagine bellissime sull'argomento, mi pare che già l'avessero compreso Hume e Kant».
Dario Antiseri ha scritto che «da tutta la scienza non possiamo estrarre un grammo di morale». Si può stabilire coi metodi della scienza o per via argomentativa se una morale è superiore a un'altra o più auspicabile di un'altra?
«Sono pienamente d'accordo con il mio amico Dario Antiseri. Non fondiamo l'etica su base scientifica; però, il fare scienza è qualcosa, io credo, di profondamente morale. È impegno per sapere di più sul mondo, procedere razionalmente, discutere con chi la pensa diversamente e mettere in comune i risultati. Vorrei che si procedesse così anche in altri campi. Ma è difficile. E come nella scienza non c'è posto per la verità assoluta, così non c'è posto in morale per i cosiddetti valori assoluti».
Secondo lei in che rapporto stanno democrazia e verità, specialmente in un'epoca, quella della connessione globale e dei social, che qualcuno ha etichettato come l'era della post-verità?
«La verità scientifica non si stabilisce per alzata di mano. Lo spiegava già Galileo Galilei nel suo Saggiatore (1623). Diffidare sempre del consenso della maggioranza; preferisco il dissenso delle minoranze (intelligenti)».
Nel futuro ci sarà ancora posto per il Dio cristiano e per le religioni in genere?
«Se nel futuro non ci sarà posto per il Dio delle religioni rivelate, sarà perché è stato assassinato dai fanatici e dagli intolleranti che dicono di appartenere a tali religioni».
Qual è il ruolo della filosofia oggi? Si può ancora credere nella filosofia come pratica di vita, com'era alle origini, o ormai è solo una faccenda da specialisti?
«La filosofia è, oggi più che mai, una pratica di vita. In Italia abbiamo sedicenti filosofi che sproloquiano di metafisica o si perdono in sterili esercizi di filosofia del linguaggio. Facciano pure; qualcuno, però, dirà loro che essi non sono Ludwig Wittgenstein».
Sono in molti, e da tempo, a preconizzare il declino dell'Occidente. Lei come vede il futuro della nostra civiltà?
«Con lucida disperazione. La locuzione è di Bertrand Russell. Ma anche con l'esigenza che la nostra società libera impari coraggiosamente a difendersi».
Lei è uno studioso di taluni aspetti del «libertarismo» e del «neoutilitarismo». Di quali in particolare?
«Sono stati proprio gli aspetti più interessanti delle probabilità soggettive e della teoria delle decisioni razionali a spingermi ad approfondire temi del cosiddetto neoutilitarismo - il principale riferimento è stato al pensiero e all'opera di John Harsanyi. Si trattava di vedere sotto quali condizioni fosse possibile costruire una funzione delle preferenze che massimizzasse l'utilità collettiva di certe scelte politiche. Era anche un nuovo modo di intendere classici del pensiero politico come Jeremy Bentham e John Stuart Mill - per non dire di alcuni spunti della stessa tradizione italiana, da Cesare Beccaria a Carlo Cattaneo. L'aver sistematicamente considerato l'utilitarismo come un pregiudizio borghese mi sembrava uno degli aspetti peggiori di quella mescolanza di cattolicesimo sociale e di marxismo di cui si compiaceva gran parte della sinistra italiana. Che dimenticava, tra l'altro, la lezione di pensatori come Luigi Einaudi. Certo, era anche interessante prospettare delle alternative allo stesso utilitarismo, per evitare che l'enfasi sul bene comune potesse prendere delle derive autoritarie. Una prospettiva assai stimolante mi è parsa quella del neolibertarismo, per esempio in Robert Nozick.
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