Curzio Malaparte, un italiano vero (malgrado l'Italia)

La ripubblicazione delle sue opere da Adelphi è l'occasione per rivalutarlo una volta per tutte. Il suo pencolare tra fascismo, comunismo e democrazia è una tipicità nazionale, non ipocrisia

Malaparte era un vero e proprio personaggio: non passava giorno senza che, per questo o quel motivo, giornali e riviste non si occupassero di lui, con tanto di fotografia. (Da notarsi che non esiste una sola fotografia di Malaparte dove sia stato colto di sorpresa: è sempre lì, composto e fotogenico, l’occhio attento all’obiettivo anche senza guardarlo.) Insomma: era celebre come un divo del cinema, un calciatore, un uomo politico importante, viveva anche al di là e al di fuori delle sue opere, dei suoi articoli. Si trattava di una delle sue mete principali e la raggiunse: tranne d’Annunzio, nessun altro scrittore italiano ci era riuscito, e nessun altro ce l’ha fatta dopo.

Poi, dopo la sua morte, il silenzio. Scomparso l’uomo, e con lui il personaggio, venne steso il silenzio anche sulla sua opera. Troppo eclatante il suo successo, o troppo ambigua la sua biografia? Per ora, basti osservare quanto sia stravagante e provinciale che - per rilanciarne l’immagine e l’opera - occorra l’uscita, dopo Kaputt, di La pelle nelle edizioni Adelphi. Edizioni prestigiose, certo, e con un ottimo apparato critico, ma non più del «Meridiano» Malaparte, che ebbe un tam tam mediatico enormemente inferiore. È che Adelphi fa figo («fico», direbbe lo scrittore toscano), e a quel nome l’intellighenzia italiana si apre appunto come un fico maturo.

Curioso, visto che addirittura Alberto Asor Rosa nella sua storia della letteratura italiana gli dedica appena poche righe, per di più confondendolo con Curzio Maltese (si tratterà di un refuso, speriamo). Eppure, Kaputt e La pelle sono tra i libri italiani più tradotti e letti, ancora oggi, nel mondo. E Malaparte all’estero è più amato che da noi. Nel prossimo febbraio l’editore Grasset pubblicherà un saggio di ben 630 pagine su di lui: direttamente in francese, anche se l’autore del saggio è italianissimo: Maurizio Serra, autorevole studioso della cultura fra le due guerre, oltre che ambasciatore. Alla presentazione/convegno presso l’Istituto Italiano di Cultura (23-24 febbraio) parteciperanno, fra gli altri, Bernard-Henri Lévy, Jean-Paul Enthoven e Dominique Fernández, oltre a Francesco Perfetti e al sottoscritto.

I libri lavorano lentamente. La soddisfazione maggiore che ebbi dal mio su Malaparte - L’Arcitaliano, 1981, ancora vivo e vegeto - fu il «Prix pour le meilleur livre étranger» che gli editori francesi assegnarono nel 1983 all’edizione di Denoël. Deludente fu invece la conferma di malcostumi tipici della cultura italiana: molti recensori parlarono bene del libro, ma ripetendo su Malaparte quasi tutti i luoghi comuni che il mio saggio smontava. Però L’Arcitaliano ha trovato, anno dopo anno, lettori attenti e persino disposti - rara avis - a riesaminare le proprie idee: parecchie iniziative editoriali, numerosissime tesi di laurea e qualche studioso hanno scoperto un Malaparte diverso da quello che la vulgata degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta aveva tramandato bollandolo pigramente secondo stereotipi fascisti, comunisti e piccolo-borghesi.

Il motivo dell’antipatia che il personaggio suscita (oltre al suo successo) è quel suo stare dentro e fuori il fascismo, dentro e fuori il comunismo, tanto che gli venne appioppata la nomea di «voltagabbana», difficile da cancellare. Cominciai a occuparmi di Malaparte proprio per esplorare questo mistero. Mi chiedevo se è corretto dare giudizi moralistici su un intellettuale che ha vissuto secondo i propri umori e ha difeso, anzitutto, la possibilità di scrivere in barba a ideologie fanatiche. Il suo pencolare tra fascismo, comunismo, democrazia fu solo molto più rapido, vistoso (e fruttuoso) della media italiana, e non del tutto deprecabile, visti gli esiti delle prime due ideologie e gli esiti molto dubbi della democrazia, quanto a reale «potere del popolo». La demonizzazione del fascismo è quasi cessata, come la santificazione del comunismo, e ci dovrebbe apparire meno strumentale, più sincero, quello stare dentro e fuori dal fascismo e dal comunismo che in Malaparte, come in tanti italiani, non era solo ipocrisia e debolezza, ma anche genuina speranza di partecipare a una trasformazione radicale e benigna del Paese.
Malaparte precorse molti fenomeni politici, culturali e sociali. Con il suo essere «narratore d’intervento» e «letterato di massa», diffondendo una sorta di didattica sociopolitica oggi molto più comune di allora e spesso di enorme acutezza. Per esempio intuì e scrisse, con decenni di anticipo rispetto agli storici, che la rotta di Caporetto era stata, in realtà, una inconscia rivolta dei soldati italiani di fronte alla condotta militare e politica della prima guerra mondiale; poi, nel secondo dopoguerra, denunciò subito e lucidamente il degenerare dell’antifascismo in una fede religiosa uguale e contraria al fascismo.

Lo spaziare in attività non propriamente sue - dal cinema al teatro, dal giornalismo al varietà -, il suo volere a ogni costo essere un personaggio sono fenomeni oggi comuni, quasi banali. Il Malaparte «presenzialista» che curava come una signora la propria bellezza, viveva da single e passava da una donna all’altra, non susciterebbe più scandalo.

Insomma, fu un campione di quello speciale tipo umano che sono gli italiani, in particolare gli intellettuali italiani. Come uomo e scrittore, ha avuto un ruolo non secondario nella nostra società, e ne è più rappresentativo di quanto la società italiana, e lui stesso, gradirebbero: un esemplare gigante dell’italiano medio, come deformato dalla lente di ingrandimento, pletorico e ipertrofico di quei vizi e di quelle virtù che si sogliono definire «nazionali», un arcitaliano. Era opportunista, mancava di senso dello Stato, applicava costantemente quella doppia morale che ci è ben nota. Era furbo, come deve necessariamente essere un italiano, soprattutto se di successo, ma con quella coscienza, un po’ vergognosa, di esserlo e quell’ingenuità di fondo che rende sopportabili i furbi italiani, specialmente se di successo.

Una cruda verità Malaparte la disse in un’intervista del luglio 1955: «Penso che se fossi vissuto in una società più virile e in mezzo a un popolo più virile sarei forse potuto diventare un uomo nel vero significato della parola. Ma se dovessi definirmi con una sola parola direi che, nonostante tutto, sono un uomo». Né la prima né la seconda dichiarazione gli sono mai state perdonate, perché vere.
In definitiva, sono i suoi libri a esprimerlo veramente, a rappresentarlo nel mondo, quello dei suoi contemporanei e quello dei posteri. E Malaparte ci ha lasciato, tra gli altri, libri come Kaputt e La pelle. Il motivo centrale della Pelle è lo stesso di Kaputt e dell’incompiuto e postumo Mamma marcia: la decadenza dell’Europa. La «mamma marcia» è infatti l’Europa, umiliata nella sua potenza e schiacciata nella sua cultura dai due vincitori.

A giudicare quanto fosse limitata la critica dell’epoca, basti il giudizio sentimental-moralistico di uno dei critici più celebri dell’epoca, Emilio Cecchi: «Con animo egoistico e torbido, egli s’è servito di cose che non si potevano né dovevano toccare. Non solo ha odiosamente deriso, ma ha scoperto con mani profane qualche cosa ben più sconcia e lacrimevole della nudità e ubbriachezza di Noè.

Diciamo pure, senza neanche bisogno di alzar la voce, che ha fatto, Dio lo perdoni, una di quelle cose che veramente non si fanno». Ci voleva Adelphi - forse e speriamo - perché il giudizio cambi del tutto.
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