De Nicolò: "Pedinata e molestata dal colonnello"

Terry De Nicolò era una ragazza della "scuderia" Tarantini. È diventata bersaglio di Salvatore Paglino, il finanziere che a Bari indagò su Berlusconi: "Mi chiamava 30 volte al giorno, citofonava, mi seguiva. Insisteva: voleva salire da me"

De Nicolò: "Pedinata e molestata dal colonnello"

Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica

Appuntamento sul lungomare. Dopo molte insistenze vince la curiosità. Terry De Nicolò, protagonista suo malgrado dell’inchiesta che ha finito per portare in carcere l’ex vice di Vendola, Sandro Frisullo, una delle ragazze che Gianpi Tarantini aveva invitato alle feste a Palazzo Grazioli per ingraziarsi il premier, arriva su un’utilitaria rossa. Accosta, scende dall’auto, lo sguardo nascosto da un paio di occhiali scuri. «Di che cosa si tratta, ’sta volta?». Le diciamo un nome, quello del tenente colonnello Salvatore Paglino, l’uomo che indagò su Berlusconi e la D’Addario, l’ufficiale che poi, a Trani, ha condotto l’inchiesta sul caso Agcom, che vedeva il premier indagato. Avrebbe tempestato di messaggi e chiamate alcune testimoni dell’inchiesta barese. E la procura avrebbe indagato su quell’episodio. Terry si stringe nelle spalle. «Sì, ero io la destinataria. E non credo d’essere l’unica. Ne ho già parlato mesi fa ai magistrati».

L’inchiesta ora è chiusa. Ci racconta com’è andata?
«Maggio 2009, un anno fa. Gli investigatori di Bari che indagavano sulla vicenda Tarantini-D’Addario mi convocano. Incontro per la prima volta quel colonnello che poi avrei ritrovato sempre accanto al pm Scelsi, e non solo lì».

E quindi?
«Ho fatto altri interrogatori, si era nel pieno dell’inchiesta Tarantini e il colonnello Paglino era sempre lì, tranne forse una volta, a far domande sulle feste a palazzo Grazioli e tutto il resto. Terminate le deposizioni il colonnello inizia con gli sms».

Prego?
«Mi tempesta di messaggini, mi chiama. Con insistenza sempre maggiore, fino a settembre, poi una tregua, e a novembre ricomincia. Devo dire la verità: all’inizio era gentile, quasi formale, pensavo fosse una strategia per carpirmi chissà quali segreti. Ma davvero non avevo altro da dire. Ma ho capito quasi subito che puntava ad altro. Anche perché non mi spiegavo tutte quelle chiamate, frequentissime, ossessive».

Quanto frequenti? Quanto ossessive?
«Un’infinità, centinaia di sms, molti dei quali conservo ancora, piovuti a tutte le ore, fino a trenta telefonate al giorno. E se non rispondevo, lui continuava, insisteva, non mollava mai. Cominciava in tarda mattinata e andava avanti per ore, anche fino a notte, qualche volta».

Cosa scriveva, messaggi attinenti all’inchiesta?
«Macché. “Dai vediamoci”, oppure, “sono sotto, fammi salire a casa”, roba così. Io prendevo tempo, gli dicevo che ero col fidanzato o con mia madre, anche se non era vero. Quando non sapevo come uscirne gli proponevo di vederci in luoghi pubblici, tipo al bar. Una volta mi ha raggiunto in un bar, sospetto che mi avesse seguita fino lì. Ma invece di parlare dell’inchiesta si guardava intorno e parlava di questioni personali. A parte quella volta, i miei tentativi di dirottare lontano da casa le sue richieste di incontro sono andati sempre falliti. Lui diceva “no, meglio di no, se ci vedono è pericoloso. A casa tua è meglio”. Faceva anche le poste sotto casa. Avevo crisi di panico appena vedevo le macchine della Guardia di finanza. E quando gli chiedevo conto di quegli appostamenti, si giustificava dicendo che aveva accompagnato un magistrato, o che si trovava a passare da lì perché andava in una caserma lì vicino. Se fosse vero o no, io non lo so. Di certo l’ho visto spesso aggirarsi intorno a casa mia».

E alla fine l’ha fatto salire?
«No. Non è mai salito da solo, ma non è stato facile tenerlo fuori dalla porta. Inventavo sempre scuse. Più di una volta mi ha detto, seccato, che non mi credeva, che era impossibile che non fossi mai sola in casa nell’arco della giornata. È capitato anche che citofonasse, per fortuna avevo il video, sapevo che era lui e non rispondevo. Insomma, era un’ossessione, e io ero in preda all’ansia».

Lo ha denunciato?
«No».

E perché, scusi?
«Ma come perché? Ero terrorizzata. Vivevo un incubo in quel periodo. Tutti mi tartassavano: giornalisti, finanzieri, amici, avvocati, magistrati. Non si parlava d’altro che del premier, delle serate a palazzo Grazioli a cui anche io avevo partecipato. Avete idea di quanti vostri colleghi insistevano perché raccontassi particolari piccanti su Berlusconi, sulle feste, sugli altri politici? Che cosa avrei dovuto fare? Denunciare quello che per me era il capo degli investigatori della procura? Di chi avrei dovuto fidarmi? E a chi avrebbero creduto, a me, che mi chiamavano escort, e mi dipingevano per quello che non ero, o a lui? E poi grazie al cielo ero riuscita a tenerlo lontano da casa, non è che mi avesse mai messo le mani addosso. Dovevo dire che mi tormentava? Era la parola del capo degli inquirenti contro la mia. Speravo solo che finisse».

Lei però poi ne ha parlato a verbale.
«Certo che ne ho parlato, ma non spontaneamente. Me l’hanno chiesto loro. Il nome del colonnello me lo hanno fatto loro. I pm».

Quando?
«Il pomeriggio del 13 novembre, un venerdì, mi presento in procura perché avevo ricevuto un mandato di comparizione dai magistrati di Bari. Pensavo all’ennesimo interrogatorio su Tarantini. Una volta lì capisco che qualcosa non torna. Di Gianpi (Tarantini, ndr) i pm non parlano. Si informano su chi frequento, chiedono se ho problemi con qualcuno, e con chi avessi continui contatti telefonici...».

E lei?
«Dico loro che non capisco, ed era vero. Ma insistono, mi mostrano un numero di cellulare. “Le dice niente questo?”. Lì per lì non lo riconosco. Insistono: “Ci sono centinaia di chiamate e messaggi che lei ha ricevuto da questo numero”. A quel punto sudo freddo, ma ancora non pensavo fosse lui. Così lo digito sul telefonino e, chiamandolo, vedo quel nome salvato in rubrica: “Colonnello”. Capisco e sbianco».

Che cosa aveva capito?
«Che i pm sapevano già tutto. Degli sms, delle telefonate, delle insistenze. Di fronte all’evidenza, e alle loro domande dettagliate, non ho potuto più evitare di dire quel che mi era capitato. A dirla tutta mi sono tolta un bel peso. E alla fine sono stata fortunata, perché mi è sembrato di capire che non sono stata la sola ragazza a essere stata oggetto di attenzioni particolari. Ho capito allora che avevo fatto molto bene a non farlo mai salire a casa».

Da allora l’ha più sentito?
«Sì, dopo l’interrogatorio. Quando i magistrati mi chiesero di controllare quel numero, involontariamente feci partire uno squillo. Il colonnello se ne sarà accorto perché, nei giorni successivi, ricominciò a chiamare insistentemente. Non so se sospettasse qualcosa o se fosse solo tornato alla carica...».

Morale della storia?
«Non so come sia proseguita questa vicenda, che fine abbiano fatte le indagini. So che mi fidavo di un inquirente che di questa fiducia ha sicuramente abusato.

È possibile che una testimone si ritrovi marcata stretta da un ufficiale che l’ha interrogata, manco fosse uno spasimante ossessivo? Stalking, molestie. Io non lo so, non sta a me giudicare. So solo che non auguro a nessuno di provare quel che è toccato a me. A nessuno».

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