Destra, cinque cavalieri contro l'Apocalisse

Erano fieri di essere apostati (e "appestati") in un'Italia settaria e conformista. Ecco le loro opere da riscoprire

Destra, cinque cavalieri contro l'Apocalisse

L'ultimo ad andarsene è stato Piero Buscaroli, poche settimane fa. Il primo era stato Giano Accame, nel 2009, e poi Enzo Erra nel 2011 e Fausto Gianfranceschi un anno dopo. Fra il più vecchio, Enzo, e il più giovane, Piero, correvano quattro anni di differenza, con in mezzo fra i due Fausto e Giano e insomma erano coetanei, tutti nemmeno ventenni al tempo della caduta del fascismo e in seguito tutti giornalisti di talento, i quattro moschettieri della Destra non conformista dell'epoca, ciascuno ritagliandosi il ruolo di Athos o quello di D'Artagnan, a volte baruffando fra loro, un po' Porthos, un po' Aramis, a volte fra loro alleandosi, sempre però gelosamente indipendenti e individualisti, croce e delizia di ogni intelligenza non votata all'ammasso. Intellettuali di opposizione e di area, scrittori di libri importanti nei rispettivi campi di interesse, storia e musica, narrativa, politica e economia, anche la morte li ha accomunati nello stesso destino, ovvero il silenzio della cultura ufficiale e/o egemone. In un Paese civile, il vincitore rende l'onore delle armi allo sconfitto e lo include nel Pantheon di una memoria condivisa. In Italia le memorie restano separate e non si riconosce dignità di pensiero a chi non l'ha pensata e non la pensa come te. Anche per questo li raccontiamo, e poi perché mentre il Novecento finiva tutti e quattro si ritrovarono a collaborare al Giornale, la loro ultima tribuna.

Il quadro non sarebbe però completo senza un quinto moschettiere, o meglio un cardinale Richelieu o un cardinale Mazzarino nelle vesti non di avversario, ma di amico. Parliamo di Alfredo Cattabiani, che nella loro generazione arrivò più tardi, una decina d'anni dopo, e fu purtroppo il primo a mancare, nel 2003, a 66 anni. Il suo ruolo fu quello di suggeritore e mentore: fondò collane editoriali e case editrici, la Rusconi, per dire la più famosa, recuperò autori dimenticati e ne scoprì altri, tenne a battesimo libri e iniziative di almeno un paio dei nostri «magnifici quattro» e in seguito si ritagliò un profilo di scrittore sapienziale anomalo nel nostro panorama letterario. Anche Cattabiani fu negli anni '90 una firma del Giornale e insomma ora ci sono tutti.

Il lettore mi scuserà, ma questo è anche un articolo personale, perché quei nomi hanno scandito la mia educazione intellettuale, in anni in cui sfilarsi dalla egemonia del pensiero di sinistra era un piacere e un dovere. Adesso che l'Italia è quella che è, suona un po' uggioso ricordare quella che fu, il conformismo plumbeo spacciato per anticonformismo liberatorio, il settarismo camuffato da afflato umanitario, il cordone sanitario ideologico teso intorno a tutto ciò che veniva considerato culturalmente «infetto», la peste reazionaria, qualunquista, borghese, fascista, in una parola, da cui il Paese doveva essere tenuto lontano a tutti i costi e con tutti i mezzi. Accame, Cattabiani, Buscaroli, Erra, Gianfranceschi (li cito in ordine alfabetico) facevano parte degli apostati ed erano fieri di essere tali. Quelli come me, che allora avevano vent'anni, volevano essere apostati come loro. Le testate su cui scrivevano, Il Tempo, Roma, Il Giornale d'Italia, Il Borghese ci sembravano le uniche per le quali valesse la pena e avesse un senso scrivere. Più che giornalisti, mestiere che ritenevamo detestabile e retorico, ci sentivamo artisti in pectore e guerrieri di una crociata contro il resto del mondo che non ci voleva. Può darsi che fossimo stupidi, e sicuramente eravamo ingenui. Di certo non eravamo opportunisti.

Era così anche per i nostri cinque moschettieri, che infatti rispetto a quelli della loro generazione, ma dall'altra parte, ebbero poco, né l'aver avuto ragione nel momento sbagliato gli venne mai perdonato. Quando il vento delle ideologie sembrò cambiare, un esercito di «pentiti» si sedette al posto che legittimamente sarebbe stato il loro. Non credo se ne siano mai fatto un cruccio e questo penso sia stato uno dei tratti più interessanti dello stare a destra, ovvero dalla parte del torto, al tempo in cui non c'era altro posto dove stare: il disinteresse e/o il disprezzo per le lusinghe della carriera, dei soldi, del potere, il rispetto verso se stessi e le proprie idee a qualsiasi costo... Da «appestati» continuavano a guardare il nemico con l'occhio superbo e distaccato dell'aristocratico. Un motivo in più per essere odiati e tenuti nel ghetto. A disagio in un Paese troppo amato e proprio per questo da loro ferocemente rampognato, tutti e cinque hanno attraversato il cinquantennio postbellico con la dignità di quella frase di Guglielmo il Taciturno: «Non occorre riuscire per perseverare, né sperare per intraprendere». Li accomunava una concezione dell'esistenza per molti versi spartana, ma con punte di dandismo. Giano se ne stava in una bella casa sul Lungo-Tevere come se stesse accampato; Piero non ti invitava a colazione, ma a condividere «il rancio di casa»; fra le tante abitazioni in cui Alfredo visse, c'era un seminterrato, però non lontano dal Colosseo e pieno di velluti; Fausto e Enzo avevano in comune la passione per la vela...

Di Buscaroli i lettori del Giornale sanno abbastanza, perché ne fu una firma sin dalla fondazione. Ma a rendere ancora più chiaro quale fosse il clima ideologico-politico degli anni Settanta, basterà ricordare che vi cominciò a collaborare con lo pseudonimo di Piero Santerno e insomma anche la destra che si riteneva più spregiudicata e liberale aveva poi i suoi conformismi... Nel mio piccolo, a me capitò la stessa cosa a Il Settimanale, il cui direttore si definiva «un ultra di centro», ed eravamo già negli anni '80... Lasciando da parte i suoi libri da musicologo, materia a me estranea, Paesaggi con rovine, La vista, l'udito, la memoria, I luoghi e il tempo (Fogola editore) sono quelli che resteranno, sapiente mosaico di arte e storia, meditazione e ricordo. Di Giano Accame basterà ricordare Una storia della Repubblica, uscita per la Bur rizzoliana, e Ezra Pound economista (Il Settimo Sigillo), da cui emerge il suo essere un classico uomo del Novecento, faustiano nel suo uso della scienza e della tecnica, europeo nel suo riconoscersi debitore di un pensiero e di una cultura. Fra i romanzi di Gianfranceschi, il mio preferito resta Belcastro (Rusconi) e fra i saggi Il sistema della menzogna e la degradazione del piacere (Rusconi), elegantissimo quanto sferzante trattato sui guasti della società contemporanea. Della vena sapienziale di Alfredo Cattabiani (lunari, erbari, calendari, florari, bestiari) mi piace ricordare Zoario (Mondadori), ma tutti sono un viaggio metafisico fra simboli, riti, misteri, esseri umani e esseri fantastici. Di Enzo Erra, Le radici del fascismo (Il Settimo Sigillo) è ancor oggi il saggio più interessante e meglio scritto sul tema, e la sua analisi sul «volontarismo fascista» è esemplare. Il suo Napoli 1943 (Longanesi) resta un impareggiabile impasto di cronaca e revisione storica sul mito politico delle «quattro giornate» che invece non ci furono...

Il più «politico» di quel manipolo, nell'immediato dopoguerra Erra ne era stato anche una sorta di «capo spirituale», il giovane leader di un neofascismo che avrebbe voluto il suo posto al sole. Soprannominato «il Calvino napoletano», era un concentrato di rigore e ironia. Credo sia stato l'unico con cui Piero Buscaroli non ha mai litigato.

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