Il dibattito Finanziare gli artisti fa bene alle aziende

L’azienda italiana è innamorata dell’arte, ma se vuole qualcosa di più di una fugace ricompensa al suo corteggiamento, deve cambiare tattica. E puntare al matrimonio duraturo. Vale a dire meno sponsorizzazioni estemporanee con loghi buoni solo a gonfiare le rassegne stampa, e più partnership. Perché se l’azienda può dare molto alla cultura, in termini di sostegno economico e organizzazione, l’arte non può vivere nell’illusione di bastare a se stessa. Ne è convinta Valeria Cantoni, docente di Arte e Impresa all’Università Cattolica di Milano e amministratore delegato di Trivioquadrivio che la scorsa settimana ha organizzato con Hangar Bicocca, nell’ex area industriale di Milano trasformatasi in laboratorio per l’arte, «Art for business forum», una tre giorni di dibattiti con alcuni dei massimi esperti sull’argomento. Ma sponsorizzare conviene? «No - spiega Valeria Cantoni -: lo sforzo non è proporzionale al risultato. Il marchio sul catalogo di una mostra serve a poco se non si valorizza il rapporto tra arte e azienda attraverso la condivisione di valori comuni. In periodi di crisi come ora, la gente è attenta quando acquista: questo può trasformarsi in un vantaggio per quelle realtà produttive che accostano il loro nome a valori legati alla consapevolezza della complessità, come appunto l’arte».
Si prenda il settore dell’energia: Enel ed Eni sono tra le aziende che stanno investendo maggiormente in cultura. «Il settore energetico, che tratta una materia complessa e impalpabile, si è letteralmente buttato sull’arte: con una mostra può entrare a contatto con la gente divulgando prodotti di ardua comprensione e un sistema di valori in cui crede», continua Cantoni. Proprio in questi giorni l’artista americano Jeffrey Inaba ha realizzato per Enel Contemporanea una sala d’attesa eco-sostenibile al Policlinico Umberto I di Roma mentre Eni sostiene a Palazzo Marino, a Milano, la mostra sulla caravaggesca Conversione di Saulo.
Certo, vi sono delle differenze: la moda si nutre di arte contemporanea, come dimostrano la Fondazione Prada, la Fondazione Trussardi o il premio Furla per l’arte (ora al via con la settima edizione), le banche prediligono le grandi mostre mentre le piccole-medie imprese sostengono la cultura per valorizzare il territorio. Ma il confronto con gli Usa sul fronte del rapporto tra arte e business resta impari. Spiega Julie Peeler, vicepresidente del programma Arts&Business di Americans for the Arts: «In America l’arte dipende molto più dal supporto dei singoli individui che dello Stato». La filantropia sostiene il 35% dei finanziamenti ai musei che per metà, grazie a eventi di fundraising (come gli ambiti gala al Met di New York) e al costo dei biglietti, si autofinanziano. L’essere nell’advisory board di un museo è per una società americana motivo di vanto: significa condividere il prestigio di quella istituzione e conta più di mille pubblicità.

In Italia persiste invece una certa ritrosia nei confronti dei finanziamenti privati alla cultura: «Dobbiamo imparare a essere più “laici”- conclude la Cantoni-: l’idea che l’artista debba contrattare con il proprio committente è stimolante, non scandalosa. L’arte non può bastare a se stessa».

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