Andrea Cionci
Una frazione di tempo prima, un millimetro più in là e la storia italiana avrebbe potuto essere diversa. Lo dice la perizia balistica che fu effettuata su Palmiro Togliatti, il segretario del Pci che il 14 luglio 1948, sessant’anni fa, fu vittima di un attentato in via della Missione, a Roma. Un episodio che rischiò di precipitare l’Italia nella guerra civile. E se questo non accadde non fu - come è sempre stato raccontato - solo merito di Gino Bartali, che in quelle ore vinse il Tour de France. Ma anche di una serie di piccole coincidenze.
Sono le ore 10 del 14 luglio 1948. Il segretario generale del Pci Palmiro Togliatti, il «Migliore», esce, in compagnia di Nilde Jotti, dalla porta secondaria di Montecitorio. Fa qualche passo e viene raggiunto da tre colpi di pistola sparati dallo studente siciliano Antonio Pallante, che aveva giurato a se stesso di «sopprimere l’elemento più pericoloso per la vita politica italiana, in quanto agente di una potenza straniera». Un quarto colpo va a vuoto. Pallante scappa ma viene raggiunto. Togliatti resta a terra. Sono ore drammatiche per la giovanissima democrazia italiana: Togliatti è in fin di vita, a un certo punto si sparge anche la voce della sua morte. L’Italia è sull’orlo della guerra civile: gruppi di militanti di sinistra minacciano l’insurrezione popolare, le armi della guerra partigiana vengono ritirate fuori dagli armadi e dalle cantine, violente manifestazioni di piazza insanguinano le grandi città, sedate con pugno di ferro dal ministro dell’Interno Scelba. Poi la notizia della vittoria di Bartali al Tour stempera gli animi. E Togliatti trova la forza di mandare un messaggio radio agli operai per calmarli e chiede ai dirigenti del partito, Secchia e Longo, di «non fare fesserie».
Ma la differenza fra la vita e la morte del «Migliore» e, molto probabilmente, fra la pace e la guerra civile, è tutta racchiusa nei 9,2 grammi di piombo di una pallottola senza incamiciatura e in una piccola protuberanza ossea del suo cranio. È quanto risulta dalla perizia balistica del colonnello del Servizio tecnico di artiglieria Renato Cionci (nonno di chi scrive), che il 24 luglio 1948 fu incaricato dal Tribunale di Roma di esaminare l’arma e le cartucce utilizzate da Pallante. La perizia spiega dettagliatamente per quale incredibile casualità la mano del destino volle salvare la vita di Togliatti. La pistola impugnata da Pallante, un revolver a cinque colpi Hopkins & Allen, sistema Smith&Wesson, calibro 38 (circa 9,5 mm corto), non era certo un «ferro vecchio», come affermato da molte fonti: dalla perizia risultò in ottimo stato di efficienza, anche se il grilletto, piuttosto duro nel tiro continuo, avrebbe potuto diminuire la precisione della mira.
Secondo le cronache di allora e la storiografia successiva, uno dei colpi sparati da Antonio Pallante avrebbe fortunosamente «sfiorato» la testa di Togliatti. Non fu così: lo colpì in piena nuca, eppure la pallottola non sfondò la calotta cranica, bensì si schiacciò, aprendosi come un fiore a due petali, centrando l’apofisi occipitale, una sottile cresta ossea presente alla base posteriore del cranio. La pallottola poté sfaldarsi anche e soprattutto perché non era incamiciata - ovvero rivestita della lega di rame e zinco che spesso riveste i proiettili - e perché, come rilevò il perito, in essa non era presente alcuna traccia di antimonio, metallo utilizzato per indurire il piombo. La pallottola, a causa della superficie di impatto così allargata, ridusse drasticamente la sua capacità di penetrazione, rimbalzando sul selciato. Pochi millimetri più a destra o a sinistra avrebbero certamente significato lo sfondamento dell’osso e la penetrazione nel cervello dell’unica pallottola dal tiro veramente letale.
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