Per il Don Pasquale un’orchestra gioiosa esaltata da Muti

Successo a Ravenna della Cherubini impegnata nell’opera di Donizetti

da Ravenna

Tra Vienna e Nuova York e i grandi impegni con le maggiori istituzioni, Riccardo Muti si è ritagliato un ampio spazio da dedicare ai giovani italiani, così orfani di maestri, ed offre loro la lezione intensa e l'esperienza goduriosa dell'alta scuola musicale. Così guida un «progetto», come si chiama ormai con elegante cautela ogni cosa che unisca attività artistica e produzione, con l'orchestra giovanile Cherubini: impegno arduo e paziente, perché il conservatorio in Italia non prepara al suonare insieme, bensì a eventuali prestazioni solistiche, e perché quando si è raggiunto un livello alto, i più brillanti strumentisti, in genere le «prime parti», vincono qualche concorso e vanno a far parte di orchestre stabili; sacrificio che conferisce alle orchestre giovanili, e particolarmente a questa, anche il carattere di vivaio.
Quest'anno, l'importante iniziativa si è allargata, e per i teatri di Ravenna, in un'appendice del festival estivo, e di Piacenza si è allestita un'opera difficile e allegra, il Don Pasquale di Donizetti, andato in scena l'altra sera a Ravenna con successo molto festoso. Così, cantanti, coro e orchestra hanno potuto misurarsi con la scrittura accanitamente geniale, le finezze palesi o nascoste, la cara malinconia e la scatenata voglia di gioia che Muti trova ed esalta in questo capolavoro.
L'opera ha avuto successo tra mura amiche e probabilmente l'avrebbe o avrà dappertutto; ma l'operazione sarebbe stata più completa se alla guida interpretativa generale di Muti fosse stato affiancato un personaggio di calibro pari per la guida scenica, non importa se di gusti datati o amante della ricerca nel nuovo. Invece lo spettacolo è modesto e riesce ad essere vecchio senza avere il peso d'una tradizione. C'è l'usurato espediente di portar in palcoscenico tanto la scena da recitare quanto un piccolo spaccato di vita appena fuori: c'è un salottone senza pareti ma con porte, fatto di divani e poltrone che risulta la casa di Don Pasquale, il vecchio avaro che vorrebbe una giovane moglie ma viene vistosamente gabbato, e attorno la raffigurazione convenzionale di interpreti pronti ad entrare, di sartine invadenti, di macchinisti inutili. Questa s'intreccia talora con la stessa azione in giochi di furbizia imbarazzante, come quando tutta l'aria di presentazione della protagonista femminile è trasformata in un ripasso della parte in cui la sartina stessa è invitata a gesti a suggerire, o quando le porte utili per variare un po' la stanza sono fatte salire e scendere a ritmo sullo scioglilingua di Don Pasquale e del suo falso amico. E la storia di Don Pasquale è buttata nella farsa più trita: un ricordo di giovinezza è espresso in una passeggiatina faticosa con un giocattolino, un suo litigio con la finta sposa in un lungo lancio reciproco di ortaggi. Regista è Andrea de Rosa. Scene prive di ogni idea o bellezza di Italo Grassi. I costumi sono firmati da Gabriella Pescucci ma sembrano quelli che si noleggiano normalmente.
La compagnia di canto tutta giovane ruota attorno a Claudio Desderi, che recita alla grande, con esperienza consumata e voce anche.

Si cercano nei giovani interpreti le doti che potranno portarli a emergere: nel tenore Francisco Gatell, ancora esile, un colore suadente e patetico molto cattivante; nel baritono, dal timbro tenorile, Mario Cassi la cui scioltezza che lo porta soprattutto a recitativi intelligentemente spigliati; nel soprano Laura Giordano, una vocina limpida e una dizione felice. Tutti sono preparati naturalmente con grande cura, e nel finale, fra le mani di Muti, tutta l'opera vola.

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