Il Pigneto è un luogo immaginario di Roma, un triangolo di caseggiati popolari stretti fra la Casilina, la Prenestina e la Tangenziale. È la borgata pasoliniana di Accattone. È un luogo di incontro interculturale (di gentrification, direbbero gli snob) un po' Banglatown un po' latino un po' «collettivo resistente» per una certa sinistra radical chic a metà fra Veltroni e Ken Loach. Per i comuni cittadini romani è solo una zona a rischio, uno spaccio di droga a cielo aperto che il prefetto Tronca (subentrato al disastroso Ignazio Marino) non ha potuto che militarizzare. In questa zona di confine che fa un po' Wim Wenders qualche giorno fa s'è palesata Virginia Raggi, candidata sindaco del Movimento 5 Stelle. Presenza scenica alla Maria Elena Boschi, ispirazione pacifista alla Aung San Suu Kyi e piedi ben piantati nei manuali telematici del grillismo editi dalla Casaleggio&Associati non ha trovato di meglio da dire che «il M5S in Parlamento ha presentato un disegno di legge per la regolamentazione della cannabis e in realtà è opportuno aprire un dibattito».
Ecco, uno pensa di avere davanti il nuovo che avanza, la politica 3.0 e poi spunta sempre il dibbattito come nei cineclub dove imperversava Nanni Moretti. Invece, dice lei, «bisogna assolutamente sottrarre questo tipo di commercio al racket e alla criminalità». Se non altro, Raggi s'è guadagnata il plauso del flebile avversario piddino Roberto Giachetti, radicale e antiproibizionista. Ma la liberalizzazione delle droghe leggere - che per altro non è di competenza di un sindaco - non è il toccasana per un quartiere che di droga rischia di morire. Il compunto avvocato Raggi, però, è tollerante al limite dell'anarchia non solo nei confronti degli sballati, ma anche degli sbandati. I centri sociali? Hanno consentito la «tutela di un bene pubblico per fini non privatistici ma ora si passerà ai bandi pubblici». Insomma, le okkupazioni potranno continuare in altra forma dopo la vittoria di un regolare concorso.
Il grillismo di Raggi, in fondo, è così: in superficie par di riconoscervi il motto «legge e ordine» ma andando a fondo si scorge una malsana passione per l'entropia, per l'autogestione, in una parola per il cupio dissolvi. Una capitale problematica, sporca, mafiosa, incapace di rispettare le più semplici regole della civiltà si può governare affidandosi ai suonatori di bongos, ai giocolieri da strada, ai pusher e ai collettivi anticapitalisti? E, ammesso che tutto ciò fosse possibile (ancorché non sia auspicabile), con quali soldi si potrebbero effettuare gli investimenti necessari a reggere in piedi un mostro dalle mille teste come Roma con il suo circo Barnum a cielo aperto? «Vogliamo ristrutturare il debito di Roma, un debito che è principalmente finanziario e nei confronti delle banche», ha dichiarato la nostra a Micromega, ripetendo che bisognerebbe «interrogarsi sulle responsabilità e sui tassi di mutuo se sono regolari o meno ed infine trovare il modo per rinegoziare il debito con gli istituti».
Una capitale stordita dalla droga e in default perché la ristrutturazione del debito non è altro che la manifesta incapacità a ripagarlo. Ma poi ristrutturare cosa? Il Comune di Roma ha 13,6 miliardi di debiti formatisi negli anni precedenti il 2008, la maggior parte dei quali per effettuare investimenti che non sono stati realizzati. Per garantire la loro restituzione i cittadini romani pagano l'addizionale Irpef più alta d'Italia (0,9 per mille di cui lo 0,4 genera la rata annua da 200 milioni per onorare i mutui). Al tempo stesso gli italiani pagano 610 milioni ogni anno per Roma (500 dei quali per la gestione del debito affidata al commissario, governativo). Se quest'anno Roma dovesse effettuare pagamenti per debiti superiori a 539 milioni, andrebbe in crisi di liquidità. Una figuraccia in mondovisione che, evidentemente, a Raggi non dispiace.
Accettando con beneficio d'inventario queste fantasmagorie programmatiche, inventate per guadagnarsi le simpatie della sinistra, resta da chiedersi con quale dream team la giovane Virginia voglia proporsi come difensore dei «beni comuni» oltreché dei cavalli visto che vuole vietare le botticelle, ossia le carrozze che portano in giro i turisti. A questo interrogativo non è possibile dare risposta perché Raggi ha cambiato più volte versione. La più accreditata è quella che vede la squadra di 11 assessori nominata per cinque unità dal sindaco e per il resto da una consultazione online sulla base dei curricula inviati. Ecco, su questo metodo ci sarebbe da dubitare visti i «successi» ottenuti da M5S nei Comuni che governa - Livorno in primis - o visto che la stessa Raggi è stata selezionata da una minoranza (1.764 voti su 3.862 iscritti alle Comunarie). Resta, quindi, il sospetto che non sia farina del suo sacco questo programma così magmatico che si fonda sul no alle Olimpiadi, sul no alle privatizzazioni delle municipalizzate in perdita, sul no agli inceneritori e sul no alle riduzione dell'esercito di 50mila dipendenti comunali. L'unica opera annunciata è dadaista: una funivia per decongestionare il traffico nel tratto Casalotti-Boccea. Manco Corrado Guzzanti l'avrebbe immaginata. D'altronde, Virginia ha già firmato un impegno a demandare gli atti di alta amministrazione «a parere tecnico-legale a cura dello staff coordinato dai garanti del M5S», cioè dal direttorio grillino. Ormai il gioco s'è scoperto: «uno vale uno» sulla carta, ma poi decidono tutto Beppe&Friends.
A questa «Biancaneve con i sette nani che arriva in Campidoglio» (il copyright è di Alfio Marchini) resterà però una soddisfazione: il segretario di Stato vaticano, cardinal Parolin, le ha augurato «ogni successo». E dire che Virginia vorrebbe togliere alla Chiesa tutte le agevolazioni. Ma, si sa, Roma è un mondo alla rovescia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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