Al liceo di Pest Anton Kàdàr lo chiamavano Pinguino: teneva piegate le braccia a mo’ di pinne, proprio così... Uno studente mediocre e nemmeno di buona famiglia, una nullità da prendere in giro... E invece ecco che, su un giornale inglese, il suo antico compagno Kelemen scopre che Kàdàr è divenuto una celebrità. Architetto, costruisce interi quartieri, è ricco, è riverito, si è sposato, vive all’estero. L’unica cosa visibile del Pinguino di un tempo, si dice Kelemen, è la postura, quel modo buffo e un po’ impacciato di lasciar penzolare le mani... Ma come è stato possibile che un scemo di quel genere abbia fatto fortuna e che lui, Kelemen, intelligente allora come ora, si debba invece arrabattare? Deve essere stato il caso, uno scherzo e insieme l’ingiustizia del destino... E però, se anche quella scoperta, un articolo con foto su una rivista tipica da studio dentistico, fosse un segno del destino, la ruota che finalmente gira e gli offre la possibilità di rifarsi, di prendere al volo la fortuna? Basterebbe riallacciare in qualche modo i rapporti, basterebbe che Anton fosse di nuovo a portata di mano e allora tutti si renderebbero conto che il vero genio è Kelemen e che l’altro è il Pinguino di sempre...
Un’avventura a Budapest, il best seller che Ferenc Körmendi scrisse negli anni Trenta del Novecento, parte così e ottant’anni dopo noi lettori postmoderni gli andiamo dietro come fece la buona borghesia europea fra le due guerre: è cambiato tutto, eppure il piacere della lettura rimane lo stesso. Com’è possibile? Non si trattava di narrativa usa e getta, da edicola ferroviaria e da rotocalco, romanzi di moda, e alla moda, che al mutare delle mode non avrebbero resistito? Nella postfazione che ne accompagna la nuova edizione italiana (Bompiani, pagg. 482, euro 19) Giorgio Pressburger, il nostro maggior specialista della narrativa ungherese, prova a rimettere ordine fra alto e basso, classici atemporali e fenomeni di consumo, sentimento del tempo e logica da cassetta. Ciò che ne emerge è un Körmendi molto più vicino a un Moravia che non a un Guido da Verona...
Sempre più, in questi ultimi anni, l’editoria italiana, e non solo, ha riproposto e rilanciato scrittori la cui popolarità raramente coincise con il giudizio favorevole della critica a loro contemporanea. Márai, ungherese anche lui, è uno di questi, la francese Irène Némirovsky un’altra, per citarne solo un paio. Körmendi fa parte della stessa schiera e della stessa epoca ed è anche possibile che, pur nella radicale diversità fra gli anni Trenta del secolo scorso e questo primo decennio del nuovo XXI secolo, lavori nel profondo come un eco di affinità più o meno elettive: c’è una crisi economica e sociale, una perdita di valori accompagnata da una rilassatezza di costumi, non si intravedono prospettive, crescono le paure xenofobe, c’è un ritorno degli egoismi di stampo nazionale, la guerra asimmetrica del terrorismo ha portato a una nuova militarizzazione, eccetera...
Un’avventura a Budapest comincia con un tono da commedia, ma Körmendi, esordiente trentenne, era in grado di far suonare tutte le corde del romanzo: c’è la caricatura strepitosa della buona società viennese, mutilata del suo impero ma non della sua boria, la noia esistenziale della gioventù ungherese incapace di prendere la vita di petto, il velleitarismo dei rivoluzionari più o meno di professione, la voracità dei banchieri, la stupidità dei politici. Soprattutto, Körmendi era in sintonia con la sua generazione, dove più che agire si era agiti, ci si illudeva di decidere, ma si sapeva di essere inermi di fronte al destino: «Siamo giovani, Dio mio, siamo giovani! Gli strumenti caratteristici dello spirito dell’età moderna sono il volante e il sassofono. Bisogna correre, non abbiamo il tempo di vivere lentamente». E ancora: «Sentì d’improvviso l’indifferenza con la quale osservò sempre, come un estraneo, come dal di fuori, l’immutabile corso della sua vita: quell’indifferenza superiore alla sua volontà, alle sue speranze, alle sue decisioni».
A trent’anni, l’età di Kàdàr e degli altri protagonisti di Un'avventura a Budapest, giovani-vecchi ossessionati dal denaro, dal sesso e dall’ansia di vivere, Körmendi si ritrovò ricco e famoso, a quaranta era già esule a Londra. Provò a tornare in patria nel dopoguerra, quando l’Ungheria si avviava a divenire una «repubblica popolare» guidata da Mosca. Se prima era stato criticato in quanto scrittore di consumo, ora si ritrovò additato come scrittore borghese: nei suoi romanzi non c’era la lotta di classe, né eroici proletari... Se ne andò una seconda volta, negli stati Uniti, e lì morì nel 1972.
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