Fare impresa in Italia non conviene più

Fare impresa in Italia non conviene più

Fare impresa in Italia non conviene più. Meglio sarebbe investire in un Btp: è più sicuro e ha un rendimento garantito. L'alternativa? Spostare il baricentro dell'attività oltre confine (Fiat docet), dove ancora ci sono spazi per far profitti. Non ne escono bene le oltre duemila aziende industriali campionate dall'indagine di Mediobanca: con l'eccezione di qualche regina del made in Italy e del Quarto Capitalismo, ovvero le medie imprese capaci di innovare, il quadro è sconfortante.
Le cifre, del resto, parlano chiaro. Non solo i margini restano di ben il 25,6% al di sotto dei livelli precedenti la crisi dei mutui subprime, e anche il fatturato non ha ancora del tutto recuperato il divario col 2008 (-1,1%), ma tra il 2010 e il 2011 l'industria tricolore ha subìto un colpo da ko sotto forma di una caduta verticale dei profitti netti (-65,1%), soprattutto a causa dei pesanti oneri non ricorrenti. È insomma venuto al pettine il nodo delle acquisizioni effettuate (a caro prezzo, visto come sono poi andate le cose) prima dello tsunami economico-finanziario che imperversa ormai da quasi cinque anni. Ma non solo. Oltre alla drammatica situazione congiunturale, sul piatto della bilancia vanno messe anche l'ormai cronica assenza di domanda interna, l'elevata pressione fiscale sul costo del lavoro e le difficoltà a ottenere prestiti dalle banche, fenomeno che perdura visto che secondo Bankitalia in giugno gli impieghi sono calati dell'1,5%. Così, produrre beni in Italia diventa una missione quasi suicida. L'anno scorso il sistema industriale ha infatti bruciato almeno 8,5 miliardi di euro di ricchezza. Questa cifra corrisponde alla differenza tra il rendimento netto del capitale (Roi) realizzato (5,8%) e la remunerazione del capitale proprio e di terzi, cioè il debito, pari al 7,2%. Con una semplice sottrazione, risulta una perdita di 1,4 punti percentuali. Male. Soprattutto se questa perdita viene paragonata al 4,9% che hanno reso i Btp.
Cifre che sembrano dar ragione al numero uno di Fiat, Sergio Marchionne, quando afferma che «in Italia abbiamo uno stabilimento di troppo» e che «occorre indirizzare in America la capacità produttiva». Non a caso, lo studio di Mediobanca ricorda come «la distruzione di valore abbia risparmiato le sole imprese a controllo estero, grazie all'elevata redditività del capitale». Soffrono inoltre meno anche le medie imprese e il made in Italy, la cui produzione è basata sulla qualità e dove il focus non è solo sui costi ma anche sui prezzi di vendita.
Lo spostamento dell'asse fuori dall'Italia è ben evidente in queste cifre: lo scorso anno i nostri maggiori gruppi manifatturieri hanno realizzato Oltreconfine l'80% del proprio fatturato e solo il residuo 20% sul territorio nazionale.

Disaggregando questa percentuale si scopre, inoltre, che il 23% del giro d'affari è stato garantito dall'export e il 57% da attività «estero su estero». Questa «fuga» ha però un inevitabile effetto collaterale: dal 2007 sono andati perduti 68mila posti di lavoro, e per il quarto anno consecutivo l'occupazione è calata (-0,2% nel 2011).

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