Il partito francese «scala» Generali

Fra Telecom e Mediobanca, Bollorè diventa lo snodo del capitalismo italiano. Con il placet del governo

di Marcello ZacchéA sei anni dall'uscita di Antoine Bernheim, tocca a un altro francese salire al vertice delle Generali. Philippe Donnet verrà oggi designato nuovo ad dal comitato nomine. Si tratta di un manager che ha fatto carriera nel colosso transalpino delle assicurazioni Axa, chiamato nel 2012 da Mario Greco, l'ex ad che ha lasciato il gruppo poche settimane fa. Greco ha chiamato Donnet per ingraziarsi un altro francese: Vincent Bolloré, grande azionista di Mediobanca, a sua volta primo socio delle Generali con oltre il 13% del capitale. Donnet non era un uomo di Bollorè ma i due si conoscevano, tant'è che il manager francese siede nel cda di Vivendi, la società di tlc controllata da Bolloré che in Italia ha ormai preso il controllo di Telecom. Basta questo breve riassunto delle puntate precedenti per andare al nocciolo della questione: mai come ora lo snodo del capitalismo italiano pare coincidere con un personaggio solo. E straniero: Vincent Bollorè, allievo di Bernheim, padrone in Telecom, plenipotenziario in Mediobanca, da dove presidia sempre più Generali.Le mire dei francesi sul Leone esistono da sempre e per oltre 50 anni sono state gestite dal patron di Mediobanca, Enrico Cuccia, proprio in asse con Bernheim. Ora lo schema, dopo varie evoluzioni e il letargo degli anni della crisi, si ripresenta. E proprio con l'allievo di Bernheim. Ma con una differenza: Mediobanca non è più quel bastione forte di un azionariato nazionale di riferimento e non è nemmeno più al centro della galassia industriale del Paese. A Mediobanca, sepolti i salotti buoni e vendute le partecipazioni, restano solo l'attività di banca d'affari e il 13% di Generali. E a monte, in un azionariato frammentato, nessun grande socio italiano pare singolarmente in grado di contrastare l'influenza di Bolloré. Egli, con l'8%, è l'azionista privato più rilevante. Gli fa da contraltare, con pochi decimi in più (l'8,6%) l'Unicredit, che rappresenta quello che resta delle ex Banche d'interesse nazionale, che a fine secolo arrivavano al 26%. Ma Unicredit, alle prese con il clima di caccia alle streghe delle banche italiane, con i suoi 50 miliardi di sofferenze sui 200 del sistema e con qualche chiaro di luna sulla stabilità dei vertici, appare debole. Tra i suoi azionisti - dove c'è anche il fondo sovrano libico - nessuno comanda e l'unico uomo forte che ancora si danna per fare da contrappeso sulle partite in gioco, il vicepresidente Fabrizio Palenzona, è stato a sua volta indebolito dalla magistratura e dal divorzio in corso con i Benetton (soci di Mediobanca) in Adr. In questo quadro, l'ad di Piazzetta Cuccia, Alberto Nagel, è giocoforza sempre più legato a Bollorè che, oltre a essere grande socio, è il finanziere con un peso internazionale in grado di giovare al business della banca d'affari.Sullo sfondo svettano le macerie degli ex poteri forti; la pochezza di una Confidustria immersa nelle beghe di potere interno; e l'assenza di un governo il cui premier liquida ipotesi come l'acquisto di Telecom da parte dei francesi come semplici operazioni di mercato, e che usa l'arma del risparmio postale della Cdp in tutte altre direzioni (vedi Saipem). Bolloré, dal canto suo, ha investito tanto in Italia, cosa non scontata soprattutto in questo decennio. Solo in Telecom ci ha messo 3,5 miliardi negli ultimi 9-12 mesi. E sembra pronto a valorizzare presto gli asset «pay tv» di Mediaset. Ma il punto non è l'intraprendenza di un finanziere apprezzato da tanti in Italia. Quanto il fatto che sia diventato lui il centro del potere. E dunque l'avere a che fare con un sistema-Paese, la Francia, che sappiamo quanto sa essere compatto, e a cui pare pericoloso spalancare le porte del nostro capitalismo senza i necessari equilibri. Quelle delle Generali, poi, sono le più delicate e strategiche, con i loro 480 miliardi di investimenti, di cui 50 in Btp.L'uscita di Greco, inoltre, lascia nel gruppo triestino più guai di quanto non si narri. Non a caso Donnet si farà affiancare con deleghe dall'attuale direttore finanziario Alberto Minali, per ridurre la concentrazione di potere raggiunta da Greco. E la prima grana su cui scommettono a Trieste sarà quella del taglio dei costi della holding, raddoppiati dall'ex ad a oltre 550 milioni, con la creazione di un'imponente struttura organizzativa «centrale». C'è poi da verificare quell'obiettivo dei 5 miliardi di utili in tre anni che Greco ha promesso poco prima di andarsene. Soprattutto quando saranno andati a regime i minori flussi di cassa dovuti alle cessioni di attività come Bsi o le minoranze di Banca Generali; o quando si misureranno gli effetti reali sui parametri patrimoniali (Solvency 2) delle cessioni in Messico, Israele e Usa.

Ce la farà? Il timore, per qualcuno solo una suggestione, per altri qualcosa di più, è che il futuro delle Generali si giocherà su altri tavoli e potrà coincidere proprio con quello del colosso francese da cui viene Donnet. Cioè il gruppo Axa.

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