Sulle agende economiche la data di domani, 15 marzo, ha una doppia sottolineatura rossa: la Federal Reserve dovrà decidere se alzare i tassi. Ma lo stesso giorno è previsto un altro appuntamento di pari importanza, seppur meno sotto i riflettori: scade infatti l'intesa dell'ottobre 2015 sul tetto del debito Usa. Se è quasi certa la mossa con cui Janet Yellen manderà in porto la prima stretta del 2017 sul costo del denaro, non altrettanto si può dire su un eventuale accordo al Congresso sull'innalzamento del cosiddetto debt ceiling, che rischia di essere fissato a 20.100 miliardi di dollari, appena un soffio sopra i 20mila miliardi già raggiunti dal debito a stelle e strisce.
La maggioranza repubblicana non è garanzia assoluta di un via libera al provvedimento, e Donald Trump è il primo a saperlo. Il Grand Old Party ha sempre avuto in uggia gli sforamenti miliardari sui conti federali. Salvo qualche battuta a vuoto. Come quella del 2013, quando il tycoon, diventato presidente, twittava feroce il suo j'accuse nei confronti del partito dalle mani bucate: «Non posso credere che i repubblicani estendano il tetto del debito». Scripta manent. Anche nel mondo della comunicazione 4.0. E il cinguettio da usignolo incazzato di allora, rischia adesso di trasformarsi in un boomerang gigantesco capace di disintegrare i propositi di deficit spending sbandierati in campagna elettorale per sorreggere l'impalcatura degli investimenti per il rilancio infrastrutturale. Una visione strategica che inquieta - e non poco - la Fed. Fiutando l'aria, The Donald ha già mandato in avanscoperta la sua punta di diamante, il ministro del Tesoro Steven Mnuchin. «Sono favorevole a un aumento del plafond del debito», ha dichiarato l'ex Goldman Sachs. In caso contrario, è la sua opinione, saranno necessarie misure straordinarie.
Forse sarà ascoltato. O forse no. Di sicuro, l'avvicinarsi della data cruciale del 15 marzo e le incertezze legate a un patto sul debt ceiling hanno costretto dall'inizio dell'anno il Tesoro a bruciare continuamente cassa per evitare uno sforamento del tetto. Se ai primi di gennaio il saldo di cassa ammontava ancora a 400 miliardi, all'atto dell'insediamento di Trump alla Casa Bianca si era già ridotto a 384 miliardi. Ora la liquidità è stata quasi azzerata: è di appena 34 miliardi, meno della metà del cash su cui può contare Google, oltre sette volte più magra se paragonata alla dote di 250 miliardi in contanti di Apple. L'agenzia federale Cbo stima che, anche in assenza di un'intesa sul debito, il Tesoro riuscirà a pagare gli stipendi fino al prossimo autunno. In sostanza, non dovremmo assistere alla replica di quanto accaduto nel 2013 con il famigerato shut down, la paralisi dei servizi pubblici (con mancato pagamento dei salari di 800mila dipendenti) provocata dal mancato accordo sul finanziamento della macchina statale. La certezza, però, non c'è.
Bisogna inoltre considerare un'altra variabile. Che riguarda da vicino la politica monetaria della Fed. La banca centrale Usa ha ipotizzato tre rialzi dei tassi quest'anno, il primo dei quali sarà deciso con ogni probabilità domani, soprattutto dopo i dati sul mercato del lavoro, superiori alle attese, diffusi venerdì scorso (235mila nuovi posti in febbraio).
Ma ogni giro di vite rischia di pesare per circa 400 miliardi sulla spesa per interessi del governo, con il risultato di allargare lo spread tra deficit e Pil. Senza una crescita particolarmente robusta, la Yellen potrebbe quindi essere costretta nei prossimi mesi a rivedere in tutta fretta i piani di volo.
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