Scrittore torinese, classe 1965, ma anche traduttore e consulente per il Salone del Libro di Torino. Ha pubblicato romanzi - l'ultimo in ordine di tempo Essere Nanni Moretti (Mondadori, 2017) e saggi l'ultimo è Mi sono perso in un luogo comune (Einaudi, 2016). Ma mentiremmo se non dicessimo che ancora e sempre si associa Giuseppe Culicchia al suo esordio, Tutti giù per terra, che uscì nel 1994 per Garzanti, quando aveva 28 anni e faceva il libraio a Torino, proprio dove adesso c'è un Apple Store. Le coordinate della nascita del romanzo, poi un film con Valerio Mastandrea, sfiorano i confini del mito: scritto su una Remington portatile, con l'endorsement di Pier Vittorio Tondelli, diede vita a Walter - «il primo precario della letteratura italiana» - in 130 pagine di cui è anche difficile calcolare le copie vendute, perché il titolo è passato da molti editori ed è diventato un longseller, un classico letto pure nelle scuole. Tra poco la storia di Walter torna in libreria per Einaudi, con una nuova introduzione dell'autore. E il «walterismo» è rimasto appiccicato addosso a Culicchia per così tanti anni che non perde occasione per indicare gli esemplari più vulnerabili di «razza precaria». Primi fra tutti, gli scrittori.
Fare lo scrittore rimane un secondo lavoro?
«Lo scrittore dovrebbe prima di tutto fare un bel matrimonio. Con un partner benestante».
Scherzi a parte?
«Oggi fare lo scrittore in Italia è più complicato. Lo dicono gli spietati numeri Istat. Un lento ma costante crollo dei lettori, che anche quando sono forti leggono poco. Le tirature, inferiori a quelle americane o inglesi. La lingua, che non è agevolata come in Francia».
In che senso agevolata?
«Fiscalmente. Per il solo fatto di scrivere in francese, siccome promuovono così la lingua del proprio Paese, gli scrittori francesi hanno agevolazioni fiscali».
Andrebbe fatto, in Italia?
«Non solo per chi scrive, anche per chi legge».
E gli editori?
«Tagliano. Cercano di abbattere i costi in vari modi: esternalizzano l'artigianato di settore, sicché il file dello scrittore arriva tra le mani del lettore dopo essere passato tra quelle di partite Iva e contratti a termine. Queste persone devono darsi parecchio da fare per mettere insieme uno stipendio, vanno di corsa e la cura del testo ne risente. Siamo arrivati ad avere testi stranieri tradotti e pubblicati quasi senza revisione, mentre prima si facevano tre giri di bozze. Poi, accorciano la vita del libro».
Sarebbe?
«Gli uffici stampa seguono un titolo per un mesetto. Se funziona, decolla e arriva in classifica, se piovono inviti in tv o nei festival, bene. Se no...».
Zac.
E l'autore è lasciato a se stesso con il suo libro».
Anche i big?
«Dipende dal contratto, dal rapporto con l'editore. I ritmi ormai sono fordisti, ma se si tiene a un autore, anche se i risultati non sono brillanti lo si sostiene comunque. Non a caso questo è un mondo in cui le gelosie non si contano».
E i librai?
«Quando ricevono gli scatoloni con le novità, il primo pensiero è: Dove li metto questi?. Vanno al posto dei libri che, usciti solo da due o tre settimane, non sono decollati e non rendono. Nelle scuole per librai insegnano che l'indice di rotazione elevato fa sparire il titolo e si deve lavorare per redditività al metro quadro: se quel metro quadro non rende bisogna cambiare coltivazione. E il libro diventa un mensile».
In un mondo in cui i testi su internet se la giocano in un secondo e due decimi, un mese non basta?
«Quando lavoravo in libreria, mi sentii dire che i libri erano un prodotto come un altro. Secondo questa teoria, i lettori entrano in libreria, si orientano per settori, prendono quel che vogliono, vanno alla cassa, pagano ed escono. Ma il libro non è un detersivo o una banana. Se entro in dieci librerie di catena, mi trovo di fronte sempre gli stessi libri in tutta Italia. Perché c'è una cosa che il lettore medio non sa».
Ce la dica.
«Le librerie di catena affittano gli spazi, le vetrine, i posti in cui espongono libri privilegiati. Se ci sono cento copie in pila, il motivo è che l'editore ha pagato perché venissero messe lì, al bancone e alla cassa, non perché il librario ci credeva tanto. Così il libraio diventa un magazziniere».
Invece come dovrebbe andare?
«A volte un libro per trovare i suoi lettori avrebbe bisogno di più tempo. Prendiamo il caso Kent Haruf: è un caso felice, in cui un piccolo editore indipendente, NN, ha pubblicato uno sconosciuto e, senza grandi campagne pubblicitarie, l'autore ha trovato i suoi lettori. Ma l'anno scorso, sempre per NN, è uscito La mia vita è un paese straniero di Brian Turner. Un libro straordinario, uno dei più belli degli ultimi vent'anni, anche superiore a Kent Haruf. Turner avrebbe meritato la stessa fortuna».
Uno su 60mila ce la fa.
«Infatti uno potrebbe dire: escono 60mila titoli l'anno, c'è ampia scelta. Ma non è vero. Entro in dieci librerie e mi sembra sempre la stessa libreria, guardo la classifica e ci sono sempre gli stessi nomi, lo stesso zoccolo duro che pubblica una volta all'anno. Nel caso di Camilleri, anche tre».
Precario anche il libraio?
«Sempre a rischio chiusura. Entro un attimo nel tecnico: le rese dovrebbero permettere di far fronte al continuo flusso di novità e rientrare dei soldi non incassati. Solo che un tempo le rese venivano accreditate nell'arco dei trenta giorni lavorativi: oggi si arriva a 60, 90 giorni, sei mesi. E il libraio chiude. O si ritrova lui a finanziare gli editori».
La ricetta per aumentare i lettori?
«Presupposto: in Italia si legge poco e mica da oggi. La Bibbia nel Cinquecento non è diventata come in Germania il primo libro di casa, perché non è stata tradotta dal latino. Prendiamo atto che il Paese è messo così, che il 70% degli italiani non riesce a capire un articolo di giornale».
Che ci rimane da fare?
«Crescere nuove generazioni di lettori. Difficile che un 40enne d'un tratto si metta a dire: Adesso mi leggo un libro al mese. Ma se io padre di famiglia mi compro la libreria all'Ikea e al centro metto la tv e di fianco i dvd, ecco, ho margini di miglioramento notevoli. Ci devono essere libri in casa, bisogna leggere storie ai bambini fin da quando sono nella pancia della mamma».
I Saloni del libro possono aiutare o sono precari anche loro?
«Devono rivolgersi ai giovanissimi. E presentare tutti gli editori che in libreria si fa fatica a trovare. Cosa che il Salone di Torino ha sempre fatto».
Da fuori però sembra che al Salone manchino le idee. Ogni anno si ripetono le stesse formule.
«Non posso dire a che cosa stiamo lavorando per il 2018, perché siamo solo a gennaio, ma le idee ci sono e ci sono sempre state. Si sono fatte trenta edizioni, abbiamo costruito una fedeltà. E non in cinque giorni, ma nell'arco dell'anno. E comunque non si tratta di Salone sì o Salone no, ma di investire su scuola, ricerca, cultura in maniera diversa. Non si può pensare di risolvere i problemi con i Saloni o con Mantova, se si hanno fondi alla cultura infinitesimali».
Parliamo del suo precario, Walter, che torna in libreria dopo un quarto di secolo. Bilanci?
«È fonte di piacevole stupore che un libro scritto nel 1991 e uscito nel 1994 continui a essere ristampato. Il piccolo precario Walter è diventato un archetipo. All'epoca la sua preoccupazione era di non fare tutta la vita lo stesso lavoro come suo padre. E nel romanzo passa da un lavoretto in nero all'altro. Preoccupazione fuori luogo: nessuno oggi può pensare di fare lo stesso lavoro per tutta la vita».
Romanzo straprofetico. L'aveva previsto?
«Mentre lo scrivevo, a Torino l'industria dell'auto non era già più quella di una volta: la marcia dei 40mila, i licenziamenti, il mondo che cambiava. Oggi però è peggio. Come dice Woody Allen, ogni cento anni un grande sciacquone fa piazza pulita e cambia il mondo. Quando i millennial che oggi vanno in bicicletta a consegnare pizze per Foodora saranno in età da pensione, come faranno ad aiutare figli e nipoti?».
E se uno di questi volesse addirittura fare lo scrittore?
«Avrebbe più possibilità di quante ne ho avute io: oggi il mercato è più aperto. Einaudi ha fatto Stile Libero, allora era impensabile. Minimum fax ha uno spazio per gli italiani, allora faceva solo traduzioni».
Gli toccherebbe anche saper fare un po' lo showman, però.
«La promozione va messa in conto, bisogna essere in linea con il proprio tempo. Oggi tutto è spettacolarizzato. Anche i nostri profili social sono uno spettacolo, una maschera: mica siamo davvero così. Mi sembrerebbe strano se gli scrittori fossero esenti».
Ma c'è qualcosa a cui lei direbbe
no, anche se fa vendere più copie?«Non andrei a un reality. Ma chi se la sente, fa bene a farlo. Non ce lo vedo Flaubert al Grande Fratello Vip, ma Swift sicuro ci sarebbe andato e ci avrebbe scritto su qualcosa».
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