In questo mondo di regole violate ed eccezioni benedette, c’è un rito che sopravvive a se stesso. È il rito giudiziario emiliano-romagnolo. Una particolare versione dei codici legislativi applicata nella regione più rossa d’Europa agli amministratori pubblici di sinistra. Un’interpretazione non scritta ma assai più in voga di quella autentica, una giurisprudenza «creativa» e a senso unico, impensabile fuori dai confini della regione governata da Vasco Errani dove gli intrecci fra partiti, cooperative rosse, enti pubblici avviluppano anche chi deve amministrare la giustizia.
È successo, per esempio, che terreni agricoli acquistati per quattro soldi da prestanomi del Pci-Pds-Ds siano poi stati trasformati dalle amministrazioni rosse in aree commerciali o residenziali con una cubatura moltiplicata a dismisura e guadagni adeguati. Speculazioni colossali per finanziare le bisognose casse del partito. In uno di questi casi (la compravendita dell’area del Campazzo tra Modena e Nonantola) ci furono denunce e processi. Sindaco e assessore furono assolti con una motivazione che lascia di sasso: «La manovra speculativa su aree fabbricabili attuata da un partito politico (indirettamente attraverso l’interposizione di un soggetto economico) alla stregua di privati proprietari può porsi a un severo giudizio di moralità pubblica» ma «non necessariamente implica comportamenti individuali penalmente sanzionati». Speculare per il partito è lecito. Quando la Cassazione le fece a pezzi, la sentenza era ormai prescritta.
Altro caso. Negli anni Novanta una legge vietò ai dipendenti dei partiti diventati amministratori pubblici di raddoppiare le indennità di carica e lasciò a carico del partito il versamento dei contributi previdenziali. Una scoppola per i funzionari del Pci-Pds che facevano i sindaci o i consiglieri. Ma la grande famiglia rossa sistemò tutto: i dipendenti del partito furono assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa (per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps). Scattarono denunce in tutta Italia. In Emilia Romagna furono indagati 66 amministratori rossi. A Vercelli l’ex sindaco socialista Fulvio Bodo fu condannato a un anno e otto mesi per l’assunzione fittizia; in Emilia tutti assolti: per il gip di Modena «l’assunzione corrispondeva a una opzione professionale» in base a «lodevoli ragioni di opportunità politica».
Negli anni di Tangentopoli Nino Tagliavini, manager reggiano presidente del colosso cooperativo Unieco, raccontò di aver portato 370 milioni di lire non dichiarati a Botteghe Oscure e messi in mano del tesoriere Marcello Stefanini. Massimo D’Alema fu raggiunto da un invito a comparire per finanziamento illecito come si usava a quel tempo. Ma il futuro premier fu prosciolto. Tagliavini rivelò di aver partecipato a una riunione con molti presidenti di coop in cui D’Alema fece loro presente i problemi finanziari del partito avvertendo che Stefanini li avrebbe chiamati. Ma per il gip di Reggio Emilia «una richiesta di aiuto finanziario non costituirebbe determinazione o istigazione a commettere falsi in bilancio». Quindi l’allora segretario conosceva e controllava la situazione finanziaria del partito, ma non ha responsabilità nel finanziamento illecito. A differenza che nel resto d’Italia, in Emilia Romagna un capo di partito poteva non sapere.
Più recente è lo scandalo Coopservice. In vista della quotazione in Borsa di una società controllata (Servizi Italia), la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop. Nonostante un rapporto della Guardia di finanza segnalasse 46 nomi, il procuratore capo di Reggio indagò soltanto i due personaggi di vertice.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.