Chi temeva una falla fa i conti con una voragine. Una voragine capace produrre gli stessi effetti dell'11 settembre se a sfruttarla, al posto di un emigrato frustrato e di un fratellino manipolato, ci fosse stato un commando di Al Qaida ben addestrato. Stavolta però non arriveranno Michael Moore e un Fahrenheit 4/13 a spiegare le inettitudini dell'Amministrazione Obama e dei suoi servizi di sicurezza. Eppure le insipienze che hanno consentito a Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev di colpire al cuore l'America sono le stesse. La prima è la più evidente è l'indifferenza dell'Fbi nei confronti di un Tamerlan, emigrato ceceno di religione musulmana che il 12 gennaio 2012 fa le valige e torna per sei mesi a casa di papà in Daghestan.
Da quando la Cecenia è stata «normalizzata» e i russi hanno fatto carne di porco dei militanti islamici il vero santuario del fondamentalismo caucasico è proprio il Daghestan. Lì Tamerlan impara a trasformare pignatte in bombe, a innescarne i detonatori e a usare pistole e fucili. Eppure al suo rientro il 17 agosto 2012 non c'è nessuno ad attenderlo. L'Fbi che lo tiene nel collimatore da anni dopo le segnalazioni di un servizio segreto straniero, forse russo, non fa nulla. Eppure insospettirsi sarebbe doveroso. I database della Cia insegnano che l'80 per cento dei terroristi risultano «totalmente esclusi dalla società in cui vivono». Tamerlan sicuramente lo è. Prima di andarsene in Daghestan abbandona una promettente carriera pugilistica, malmena la fidanzata e spiega su Facebook di non avere un solo amico americano. E già da vari anni si dedica anima e corpo alla diffusione di video ispirati alla militanza jihadista con una particolare predilezione per quelli di Feiz Mohammed, uno sceicco con passaporto australiano considerato uno dei più pericolosi seminatori d'odio della galassia jihadista. Gli agenti dell'Fbi non sembrano però sconvolgersi più di tanto. Vanno a fargli visita, invitano la madre Zubeidat Tsarnaeva a controllare chi frequenta, la avvertono che il figlio passa giornate intere sui siti integralisti, ma non muovono un dito. Stando ad una fonte della stessa Fbi, citata ieri dai media americani, gli agenti del Federal Bureau non trovano nulla di «compromettente» e decidono di mettere «a letto» l'indagine.
L'inchiesta «addormentata» non salta fuori dalle coperte neppure dopo la strage di lunedì. Da lunedì a giovedì sera, quando vengono diffuse le foto dei due sospetti con gli zainetti in spalla nella zona del traguardo, nessuno va a bussare alla porta di Tamerlan e Dzhokhar.
I servizi di sicurezza si risvegliano dal sonno solo dopo l'inconsulta reazione dei terroristi che, una volta viste le proprie immagini in tv, corrono a rapinare un negozio per raggranellare qualche soldo e sequestrano un Suv Mercedes per dotarsi di un mezzo di trasporto. L'inettitudine dei servizi di sicurezza nell'era Obama non è un caso isolato. Il maggiore di origine palestinese Nidal Hassan, autore nel 2009 del massacro di Fort Hood, entrò in azione uccidendo 13 soldati dopo lunghi scambi di e-mail, sistematicamente intercettati, con Anwar al-Awlaki, un predicatore islamista d'origine americana fuggito nello Yemen. E il tentativo nel Natale 2009 del nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab di abbattere un aereo di linea statunitense con dell'esplosivo nascosto nelle mutande era stato segnalato all'ambasciata statunitense dal padre dell'attentatore.
Nulla in confronto alla svista dello scorso settembre quando l'ambasciatore in Libia venne mandato in bocca ai terroristi in agguato a Bengasi. La svista di Boston rischia però di rivelarsi fatale per Obama.
Dopo aver perso la battaglia sulle armi rischia di veder bloccata anche la riforma della legge per l'immigrazione. Avanti di questo passo il presidente del «we can» rischia di arrivare alla fine del secondo mandato senza aver realizzato neppure una delle tante riforme con cui prometteva di cambiare l'America.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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