«Fate pressione sui vostri governi, affinché intervengano per fermare questo massacro di cristiani». L'appello dal Meeting di Rimini di monsignor Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo cattolico di Jos e presidente della Conferenza episcopale nigeriana, è inequivocabile. In Nigeria da gennaio sono stati uccisi 800 cristiani da parte dei terroristi islamici di Boko Haram, che in lingua hausa vuol dire «la civiltà occidentale è proibita», e per i cristiani è ormai diventato impossibile vivere una vita normale, figurarsi andare in chiesa, dove sono avvenuti la maggior parte dei massacri. Ma il problema non è soltanto della Nigeria, la persecuzione dei cristiani è una emergenza in molti paesi dell'Africa e dell'Asia, come dimostra il caso di questi giorni della bambina down cristiana arrestata per blasfemia in Pakistan, con la probabilità di una condanna a morte.
E davanti a questa realtà i responsabili politici sembrano impotenti sia a livello nazionale che internazionale: «È evidente che Boko Haram è sempre più potente - dice Kaigama -, sempre più efficace nei suoi attacchi, ha una disponibilità economica e militare crescente, ma il governo non fa nulla per bloccare questa minaccia, per individuare la fonte di questa potenza».
Ma anche il governo è minacciato, cosa impedisce che si agisca efficacemente?
«Ci sono tanti piccoli interessi: chi ha paura ad opporsi e cerca di adattarsi, chi pensa di approfittare del terrorismo per destabilizzare il governo guidato da un cristiano, il presidente Goodluck Jonathan, ci sono tribù che pensano di avere nei terroristi degli alleati per combattere altre tribù, e così via. Tanti piccoli interessi opposti che alla fine lasciano via libera a chi vuole prendere il controllo della Nigeria con la violenza. Ma è così anche a livello internazionale, con il rischio che le formazioni fondamentaliste acquistino potere in altre parti dell'Africa. Anche l'informazione ha le sue responsabilità, con descrizioni distorte della situazione in Nigeria».
Può fare qualche esempio?
«Intanto quando si descrive una Nigeria divisa tra un nord islamico e un sud cristiano. Non è così, io stesso sono del nord ma sono cattolico. Ma quando si dà questa informazione si fa il gioco di Boko Haram, si dà il senso di un Paese già spaccato. Si può dire invece che c'è una maggioranza islamica in alcuni Stati e cristiana in altri, ma la realtà è che cristiani e musulmani vivono insieme ovunque. Inoltre si parla spesso di scontri tra cristiani e islamici, come se in Nigeria ci fosse una guerra di religione: anche questo non è vero. I conflitti e gli scontri nascono in genere da divisioni tribali, magari ci sono furti o uccisioni di bestiame di una tribù che scatenano rappresaglie contro un'altra tribù: poi accade che gli uni sono islamici e gli altri cristiani, ma la religione non c'entra niente. Dire che c'è un problema religioso aiuta Boko Haram ad affermare l'esistenza di una guerra civile che è il loro vero scopo».
Ma come si esce da questa spirale di violenza?
«Costruendo un'amicizia vera. È quello che vedo anche qui al Meeting di Rimini, un'amicizia che genera un grande evento culturale. Solo un'amicizia che è il reciproco riconoscersi nelle stesse esigenze di uomini, che diventa stima reciproca, può essere un baluardo contro chi semina odio, contro la facile tentazione di rispondere alla violenza con la violenza. Certo, non è facile consolare persone a cui sono stati appena uccisi due o tre familiari, ma la vendetta è una scorciatoia che peggiora solo i problemi. A volte mi accusano di cercare compromessi, ma io cerco solo di costruire un dialogo con i musulmani».
Ma nel rapporto con i musulmani c'è una differenza tra i cattolici e le altre confessioni protestanti presenti?
«Ah sì, c'è una grandissima differenza. Solo noi cattolici cerchiamo di portare avanti il dialogo, partecipiamo a momenti comuni. Gli altri sono diffidenti, prevale il risentimento nei confronti di tutti gli islamici».
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