Tutto è tragicamente chiaro: il Sinai è preda di bande terroriste di origine qaidista che attaccano Egitto e Israele insieme. Ma con l'avvento della Fratellanza Musulmana alla prima occasione per dimostrare di saper tenere la testa sulle spalle, invece fuoriesce dal nuovo Egitto di Mohammed Morsi, il presidente che appartiene della Fratellanza, uno scriteriato proclama complottista. Che peccato, dopo i quindici morti egiziani cercare, invece dei colpevoli, il solito capro espiatorio: Israele, la seconda vittima dell'attacco col Paese delle piramidi. E invece dopo l'attacco terroristico di domenica notte lungo il confine fra Egitto e Israele a Kerem Shalom dopo che si è capito che il Sinai è un nido di terrorismo internazionale, i Fratelli Musulmani se ne sono usciti affermando che l'attacco è stato organizzato dal Mossad per mettere in difficoltà Morsi, e che questo è provato dal fatto che Israele aveva detto ai suoi compatrioti (ma quante volte negli ultimi anni!) di lasciare la vacanza in Sinai. Quindi, conclude la Fratellanza, urge rivedere il trattato di pace.
Morsi per ora tace, ma è difficile che il suo partito abbia stampato tanta risoluzione sul suo sito, assolvendo di fatto i terroristi di Al Qaida che invece mettono sottosopra l'Egitto. Basta ricordare quante volte è esploso il gasdotto fra Israele e l'Egitto, e quanto sfondo sociale ci sia alla presenza terrorista a causa della miseria. Mubarak affrontava i ribelli con durezza e piglio, Morsi invece non li sbatterà in prigione, nè li condannerà a lunghi anni in carcere: sono i suoi fratelli di ispirazione religiosa e politica, la sua folla, che ora, delusa e affamata, già lo minaccia. Il fatto che adesso l'Egitto abbia fatto chiudere il passaggio di Rafah è stato seguito da una esclamazione di rabbia di Hamas, che l'ha vista come una «punizione collettiva». Ma Hamas sa bene quanti terroristi provenienti da Gaza si aggirano per il Sinai, gente di Al Qaida o di Magle Shoura al Mujahddin, che alla richiesta di non passare il confine con l'Egitto risponde «non c'è nessun confine fra i Paesi musulmani. Il Mujahaddin conosce solo i confini dati da Allah», ovvero quelli della Ummah Islamica. Qui è il nodo.
La spiegazione dell'attentato di domenica, sofisticato, ambizioso, sta tutta qui, in un disegno ideologico. Egitto e Israele hanno capito il rischio: gli egiziani danno la caccia ai miliziani con elicotteri da guerra, Israele ha chiuso i valichi ed è in massima allerta, Netanyahu è andato in visita al valico e ha detto «ci difenderemo». L'esercito egiziano, forse proprio perché ha pagato lo scotto di 16 morti scontando una palese debolezza, rimonta in sella annunciando che «il nemico della nazione va affrontato con la forza». Che sta succedendo?
Poco dopo l'uccisione di Bin Laden il nuovo capo di Al Qaida Ayman Al Zawahiri annunciò una politica di «jihad regionale». Il mezzo: attentati contro «gli eretici» locali nei vari Stati arabi. L'obiettivo: il controllo dell'intero Medio Oriente. La dimensione strategica: «avvicinarsi ai confini dell'entità sionista» circondandola. Durante l'attacco di Rafiah i terroristi indossavano divise egiziane: che ci sarebbe stato di meglio che gli israeliani uccidessero qualche egiziano? O viceversa? La guerra complessiva contro Israele è il primo sogno della Jihad islamica. E non c'è più nessuno Stato sovrano sui confini di Israele che freni l'atteggiamento comune di odio per lo Stato Ebraico e che fermi l'incitamento, come si vede dalle dichiarazioni della Fratellanza Egiziana ora al governo: le rivoluzioni arabe aiutano tutti i comportamenti estremisti. L'Egitto è nelle mani di Morsi e dei salafiti. La Siria è diventata una meta per tutte le organizzazione jihadiste. Gli Hezbollah in questo periodo hanno interesse alla maggiore confusione possibile, cui spinge anche il loro sponsor, l'Iran. Il piatto per i jihadisti estremi è molto ricco.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.