Sulle prime sembra il «Sultano» deciso e strafottente di sempre. Mentre piazza Taksim brucia, il fumo dei lacrimogeni invade il centro e la polizia continua le sue cariche il premier Recep Tayyip Erdogan non fa una piega. La sua Istanbul gli si rivolta contro per il secondo giorno di fila, ma l'ex sindaco fattosi sovrano non rinuncia, nelle prime ore di sabato, ai consueti toni, provocatori ed irriverenti.
«Le elezioni si svolgono ogni quattro anni, chi ha dei problemi con il governo usi i metodi della democrazia e della legge» - ricorda mentre intima ai dimostranti di tornarsene a casa e conferma di voler spazzare via i 600 alberi del parco Gezi per lasciar spazio ad un gigantesco centro commerciale tanto simile agli antichi casermoni ottomani. Poco più tardi però la consueta, ostentata sicumera del «sultano» si affievolisce. Erdogan ammette gli eccessi della polizia e ne ordina il ritiro lasciando piazza Taksim agli oppositori. Dietro quel brusco, insolito dietrofront affiora una consapevolezza. All'ombra di Gezi Park germoglia un malcontento capace d'incrinare sicurezze e successi conseguiti in 11 anni di potere incontrastato. La protesta iniziata venerdì notte nella piazza simbolo di Istanbul non solo non si ferma, ma si allarga ad Ankara e ad altre città: un'ondata di manifestazioni anti-governative, come si evince dal numero degli arresti, 939 in oltre 90 manifestazioni in tutto il Paese nelle ultime 38 ore secondo i dati forniti dal ministero dell'Interno. Dietro gli assalti alla polizia, dietro ai quarantamila ammassati sul Bosforo e pronti ad unirsi ai contestatori di piazza Baksim non batte solo il cuore verde di chi vuole salvare un parco. Ribolle piuttosto la rabbia della Turchia laica esasperata dalla melliflua strategia di un «sultano» che ha cancellato il tradizionale secolarismo, messo all'angolo i militari, chiuso la bocca a giornalisti, intellettuali ed oppositori distribuendo ad una ristretta lobby di fedelissimi imprenditori islamici gli appalti destinati a cambiare il volto del paese.
In questo sottobosco d'insofferenza la goccia capace di far traboccare il vaso non è lo sdegno per i 600 alberi di Gezi Park, ma la rabbia innescata dalla legge del 24 maggio che non solo vieta di sorseggiare raki e birra intorno a mosche e luoghi sacri, ma impedisce di acquistarne una bottiglia di alcool tra le dieci di sera e le sei della mattina. I provvedimenti introdotti dopo il progressivo smantellamento delle restrizioni all'uso del velo nelle scuole, nei tribunali e nei luoghi pubblici sono per molti laici uno strisciante tentativo d'imporre al paese una legislazione islamica. In questo clima la vera minaccia per Erdogan è che i rancori di piazza Taksim si saldino con il malcontento per le avventurose politiche interventiste sul fronte siriano e con la rabbia di chi considera una capitolazione il recente cessate il fuoco raggiunto con i curdi del Pkk. Le vittime causate l'11 maggio da un'autobomba esplosa in una cittadina di confine hanno seriamente compromesso la popolarità di Erdogan amplificando la rabbia nei confronti di un governo accusato di essere più attento alle esigenze dei ribelli che non alla sicurezza degli abitanti delle aree di confine trasformate in santuari della guerriglia. I primi a tentare di approfittarne sono ovviamente i generali e l'establishment laico sopravvissuto alle purghe giudiziarie con cui ha Erdogan ha piegato il vecchio regime.
In quegli ambienti il cessate il fuoco con il Pkk deciso per garantire gli investimenti nel Kurdistan iracheno e continuare a sfruttare il greggio contrabbandato dai pozzi di Kirkuk viene denunciato come una politica suicida nei confronti di un'entità curda la cui esponenziale crescita demografica rischia di trasformare in minoranza i turchi dell'Anatolia.
E così il «sultano» che sognava di resuscitare l'impero ottomano rischia ora di ritrovarsi sepolto in un giardinetto di Istanbul.
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