Ricca ma infelice, l'America ha scelto il suo guaritore

In quattro anni Wall Street è cresciuta del 70%, mentre la disoccupazione sfiora l'8%

L’America cerca fe­licità. Succede ogni volta, dal 1776. L’hanno scritto i pa­dri fondatori nella dichiarazione d’In­dipendenza e succede davvero. Gli Stati Uniti che escono dalle urne e che si mettono nelle mani del presidente sono un Paese triste. Un popolo a cac­cia della pace economica, della sereni­tà sociale, della voglia di ri­mettersi in marcia. L’eredi­tà di questi quattro anni è un sacco pieno di guai in un Paese smarrito che s’eralasciato con­vincere dal sogno obamiano: la crisi c’era già nel 2008, quando il candida­to afroamericano stravinse le elezioni e promise la svolta. «Yes we can», non era solo uno slogan, ma la versione contemporanea e più ritmata di quel passaggio della dichiarazione d’Indi­pendenza che resta stampato nella te­sta di ogni americano: «Noi conside­riamo le seguenti verità evidenti di per sé: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono stati dotati di alcuni diritti inalie­nabili dal loro Creatore, che tra questi diritti ci sono la vita, la li­bertà e il perseguimento della feli­cità ».
Ecco:nell’America che ha vota­to ieri c’è il primo, il secondo, ma non il terzo diritto. È un Paese che ha perso certezze con i posti di la­voro che sono crollati negli ultimi quattro anni: oggi il tasso di disoc­cupazione è al 7,9, troppo vicino a quella soglia psicologica dell’8 per cento che accende le luci ros­se dell’allarme collettivo. Prima delle elezioni del 2008 quella per­centuale era ferma al 6,1 per cen­to.
La forbice, questa forbice, spa­venta. Barack Obama e Mitt Rom­ney hanno puntato entrambi la campagna elettorale sul macrote­ma economia. Dentro quel ma­crotema, il punto principale era il lavoro. Perché la gente parla di questo, perché la gente ha biso­gno di essere tranquillizzata e per mesi s’è chiesta soltanto una co­sa: se mi dovessi trovare nelle con­dizioni di chi in questi mesi è en­trato in quel 7,9 per cento, chi mi aiuterà di più a rientrare nel mon­do del lavoro, Obama o Romney? Il presidente democratico ave­va promesso un’America più giu­sta: l’ultimo megaspot elettorale del 2008 aveva come protagoni­sta una mamma di provincia con quattro figli, un marito disoccu­pato e due lavori da dover fare per mantenere la famiglia. «Non vo­glio più persone così», promette­va Obama nel suo informer­cial. Invece oggi di donne e uomi­ni così il Paese s’è riempito.
Ecco perché è infelice,l’Ameri­ca. Perché s’è sforzata, ma non ha trovato la chiave che apre il cassetto della ripresa. La psicologia a volte conta di più dei numeri. Perché se guardi la foto­grafia senza cuore trovi un sacco di appigli per la speranza, ma se il cuore ce lo metti vedi l’altra fac­cia: per chi il lavoro c’è l’ha, l’au­mento medio del salario è stato del 7 per cento in quattro anni. I consumi han­no­ripreso ad au­mentare: non succedeva dal 2003. Però la fi­ducia dei consu­matori è del 30 per cento infe­riore al 2008. Le vendite di case sono cresciute dell’11 per cen­to rispetto a quattro anni fa e con le compravendite hanno ripreso ad aumentare anche i prezzi (co­sa che non succedeva dal 2006), ma contemporaneamente le ri­chieste di mutui sono diminuite del 30 per cento.L’America oscil­la, non si fida, non si lancia, non è se stessa: ha smesso di indebitar­si, il che visto da un europeo è un vantaggio, ma visto da un ameri­cano è un limite.
Il chiaroscuro racconta anche
altro: la bilancia commerciale è aumentata dell’11 per cento.Fun­ziona anche l’autonomia energe­tica salita del 10 per cento in tre anni. È cresciuto anche il Pil, e non poco:più 12 per cento.Il pro­blema è che per crescere l’Ameri­ca ha aumentato del 151 per cen­to il suo deficit pubblico.
Ha supe­rato i mille e settecento miliardi annui. Anche il debito pubblico cresce e oggi è arrivato al 140 per cento del Pil.
L’America sfiduciata non ha ca­pito ancora come farà a ripren­dersi. Il presidente che da oggi metterà le mani sul Paese dovrà convincere la gente di essere in grado, assieme al congresso, di ri­durre la spesa pubblica, cosa che da tempo non riesce e che ha ag­gravato il sentimento di scettici­smo dei cittadini. La Cina che ga­loppa (meno di prima, ma co­munque più degli Usa) è uno spauracchio che non incide sol­tanto sull’umore del mercato, ma anche di quell’americano me­dio che magari non capisce tutti gli zero-virgola, ma non soppor­ta l’idea che il suo Paese venga su­perato
da chicchessia. Wall Stre­et in quattro anni è cresciuta del 70 per cento, ma se lo chiedi in gi­ro, nelle metropoli così come in provincia, la gente pensa che stia vivendo ancora una Grande de­pressione.
È un Paese da ricostruire, l’America.Ha meno paura del ter­rorismo, ma ha paura di se stessa. L’economia sfocia nella politica e arriva nella società. L’affluenza alta alle urne non è un indice di se­renità, è il contrario. È il sintomo che gli Stati Uniti sono tornati a polarizzarsi. Qualche settimana fa, l’ Economist ha riassunto la si­tuazione così: «La divisione poli­tico- ideologica è più forte che mai, con la riforma della sanità che è diventata la prima fonte di rancore tra liberal e conservato­ri ». Obama aveva portato sogni ed energia. I suoi primi quat­tro anni hanno lasciato amarez­ze e debolezze. L’America è abi­tuata a ricomin­ciare, con lo stes­so uomo alla Ca­sa Bianca o con un altro, non ha mai fatto troppa differenza. Oggi si ricomincia. Dopo il punto, c’è un a capo. È un’incognita, però. Perché il pri­mo svincolo del futuro può esse­re una strada senza uscita: se a gennaio non si troverà un accor­do sui tagli alla spesa, scatterà un aumento generalizzato delle tas­se. Più cinque per cento, in me­dia, per 160 mi­lioni di america­ni. Conviene ri­peterlo: 160 mi­lioni. Lo chiama­no fiscal cliff, ba­ratro fiscale. È molto di più. È il terrore colletti­vo: la Casa Bian­ca potrà fare po­co, perché sarà un affare del Congresso. Pe­rò non ci saranno distinguo: l’America vorrà un capro espiato­rio.

Sarà sempre e comunque il presidente: forse non avrà nean­che giurato, sarà già al punto ze­ro. Ieri s’è votato pensando a do­mani. Solo che quest’America non è l’America.

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