Sulla Siria Mosca non cede. Anche questa volta, Hillary Clinton - come prima di lei altri capi di Stato e di governo - non è riuscita a far cambiare idea al presidente Vladimir Putin e al suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Le differenze tra Mosca e Washington su come affrontare la crisi siriana non si cancellano. Il segretario di Stato americano, in viaggio in Asia, ha partecipato a Vladivostok, in Russia, al summit dell'Asia-Pacific Economic Cooperation. A lato dell'evento ha incontrato sia Putin sia Lavrov. Con loro, ha parlato delle violenze in Siria. Prima della tappa russa, Clinton si è fermata anche a Pechino che, assieme a Mosca, è l'altra capitale che continua a sostenere il regime di Bashar El Assad.
In Russia, il segretario Clinton non ha badato troppo alla retorica diplomatica e ha rifiutato la proposta di Mosca di trasformare un piano di pace discusso a Ginevra all'inizio dell'estate in una risoluzione del Consiglio di sicurezza della Nazioni unite. Una risoluzione del genere, ha risposto Clinton al collega Lavrov, «senza mordente», sarà ignorata dal rais Assad. «Dobbiamo essere realisti - ha spiegato - non ha senso far passare una risoluzione senza mordente perché abbiamo visto come Assad di volta in volta ignori e continui ad attaccare il proprio popolo».
Certo, Clinton e Lavrov si sono lasciati con le solite note positive: il segretario di Stato americano ha promesso che continuerà a lavorare con il collega affinché il piano di Ginevra possa in qualche modo essere presentato a New York, al Palazzo di Vetro quando, questo mese, si riunirà l'Assemblea generale e la crisi della Siria sarà la questione più discussa. Per l'America, però, ha chiarito Clinton, una risoluzione senza conseguenze per il presidente Assad non ha nessuna ragione di esistere. Washington, assieme alla maggior parte della comunità internazionale, chiede la fine del regime di Assad. Mosca non lo ha mai fatto e Lavrov, da Vladivostok, accusa gli Stati Uniti: «I nostri partner americani preferiscono misure come minacce, maggiori pressioni, nuove sanzioni su Iran e Siria. Non siamo d'accordo con questo».
Le fratture all'interno del Consiglio di sicurezza, le divisioni tra Stati Uniti, Europa, la maggior parte dei Paesi arabi da una parte e Cina e Russia dall'altra rendono vani gli sforzi della comunità internazionale di trovare una soluzione alla crisi siriana, alle violenze che da 18 mesi vanno avanti in diverse parti del Paese. Soltanto ieri, secondo i calcoli degli attivisti dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, in Siria sarebbero morte più di 50 persone. Si è combattuto tra l'altro ad Aleppo, Homs, Damasco.
Dall'inizio della rivolta, secondo il portavoce dell'Osservatorio, le vittime sarebbero oltre 27.300, di cui più di 19mila civili (il dato comprenderebbe anche i civili che hanno preso le armi). Le forze del regime dicono di avere perso almeno ottomila soldati. Davanti a questa situazione, Lakhdar Brahimi, il diplomatico algerino successore di Kofi Annan nella difficile posizione di inviato delle Nazioni unite e della Lega araba per la crisi siriana, ha ammesso di essere «spaventato» dalla propria missione. Annan ha lasciato poche settimane fa, frustrato dall'impossibilità di trovare una via percorribile. Brahimi ha iniziato ieri il suo primo viaggio nella regione. Oggi è al Cairo, al quartier generale della Lega araba, per organizzare la sua prima visita a Damasco, nei prossimi giorni. E secondo l'agenzia di stampa iraniana Mehr, il diplomatico potrebbe anche volare a Teheran, il primo e più potente alleato e sostenitore del regime siriano.
La Repubblica islamica accusa Turchia, Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar, Paesi che hanno parlato in favore dell'uscita di scena di Assad e che sostengono le forze di opposizione, di fomentare instabilità in Siria.
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