Nonostante il suo buonvolere, Staffan De Mistura è così associato al fallimento sui marò, da farci venire il magone ogni volta che lo vediamo.
Da mesi appare in tv per darci pessime notizie con quel delizioso birignao da giocatore di canasta che fa a pugni con la drammaticità della situazione. Il contrasto tra la iattanza indiana e i modi da boudoir settecentesco di Staffan incarna alla perfezione l'impotenza dell'Italia che va allo scontro con pasticcini e bignè, anziché col coltello tra i denti.
De Mistura è stimabilissima persona con esperienza negli aiuti umanitari maturata in 40 anni da alto funzionario dell'Onu. Sta di fatto, però, che quando ho chiesto giudizi su di lui tra diplomatici, militari, ecc., la prima reazione di tutti - tutti -, è stata una risata. Staffan fa ridere perché, nella circostanza, è considerato troppo soave e salottiero per una missione da cinghialoni grintosi decisi a reagire al ricatto col ricatto.
Si racconta che dopo l'arresto dei due fucilieri, le autorità indiane si fossero impressionate per una marcia di solidarietà a Roma di oltre cinquemila persone. «Gli italiani sono arrabbiati con noi?», chiesero a De Mistura che era già a Delhi. Chiunque avrebbe confermato: «Sono incavolati neri!». Lui, invece, memore di essere un marchese dalmata e confidando nelle buone maniere più che nei cazzotti, rispose amabilmente: «Cosa sono cinquemila persone su una popolazione di sessanta milioni?». Gli indiani pensarono allora che se gli italiani se ne infischiavano dei marò, loro potevano pure condannarli a morte.
De Mistura fu catapultato nella faccenda per caso. Era sottosegretario agli Esteri, nominato da Mario Monti (novembre 2011) perché apparteneva alla cerchia al loden del suo governo: nobile, tecnico, estraneo alla politica. Gli erano stati affidati i cocktail internazionali, potendo conversare in sette lingue: italiano, svedese, francese, tedesco, inglese, spagnolo, arabo. Aveva appena iniziato a svolgere la funzione, quando gli Indù ci presero i marò. L'Italia si suicidò subito accettando la giurisdizione indiana anziché internazionalizzare la vertenza. Monti, di fronte al pantano, tolse a De Mistura calice e olivetta e lo incaricò dell'incombenza, considerandolo il più adatto a viaggiare sia perché con l'Onu era stato dappertutto, Somalia, Sudan Afghanistan, ecc., sia perché adora l'aereo. Il ministro degli Esteri di allora, marchese Terzi di Sant'Agata, fece poi sapere che la scelta del marchese De Mistura fu fatta a sua insaputa. La missione partiva col piede sbagliato e si ingarbugliò con lo scorrere dei mesi.
Molti hanno rinfacciato al nostro Staffan una certa inadeguatezza. Per cominciare, gli indiani si sono chiesti perché accidenti gli italiani avessero inviato lui, che all'Onu è considerato, pare, molto amico del Pakistan, ossia del loro nemico storico. Per cui diversi turbanti lo hanno guardato in cagnesco. Straconvinto che il fallimento della mediazione sia da imputare a lui, è Edward Luttwak, il politologo Usa esperto di cose italiane, che ha detto: «De Mistura ha fatto la carriera all'Onu, dove essere totalmente incapaci non è un ostacolo. É solo un bellimbusto e in India è considerato un cretino».
Quello che si può dire, è che Staffan dovrebbe indossare la mimetica, invece dell'abito da golf. L'India vuole entrare al Consiglio di sicurezza dell'Onu come membro permanente? Bene: o libera i marò o l'Italia pianta un casino come già fece anni fa l'ambasciatore all'Onu, Fulci, che bloccò a lungo analoghe aspirazioni della Germania. Dunque, meno erre moscia e più sibilanti.
Il sessantasettenne De Mistura è stato inquadrato fin da ragazzo come un fighetto pariolino con, in più, l'esotismo delle sue complicate origini. Gli amici di gioventù lo ricordano con le toppe di cuoio sui gomiti delle giacche, che a Roma avevano ancora in pochi, e i capelli rossicci. «Non aveva né i colori, né i sapori di un italiano», dice un suo sodale del Gruppo Studentesco Europeo di Via della Ferratella, dove nei primi anni '60 i ragazzi fantasticavano con Altiero Spinelli di una futura Europa unita.
Staffan, sangue misto e poliglotta com'è, l'europeismo e il cosmopolitismo li ha nei pori. Di famiglia marchionale italiana di Sebenico, il padre, alla fine della guerra, dopo che i comunisti gli ebbero infoibato un fratello, fuggì dalla Dalmazia di Tito per Roma. Si trasferì poi a Stoccolma dove sposò una nobile svedese. Qui, nel 1947, nacque Staffan. Apolide, prima di diventare svedese. Infine, preso da nostalgia, il babbo ritornò a Roma con la famiglia. Da allora (1951), salvo parentesi, il Nostro ha sempre fatto capo alla Città Eterna, nonostante l'indefinibile accento, che sa un po' di tundra e un po' di pampa, del suo perfetto italiano. Prese la licenza nel Liceo Massimo dei Gesuiti, la laurea con lode in Scienze Politiche alla Sapienza e una specializzazione in «Negoziati complessi» risultata perfettamente inutile in India. La sua carriera all'Onu, iniziata nel 1971, è costellata di missioni in Paesi rischiosi, campagne alimentari, esodi di massa, lanci paracadutati di vettovaglie, avventure rocambolesche. Finché, nel 1999, commosso da tanta abnegazione e orgoglioso per quella metà di sangue nostro che gli viaggiava nelle vene, il presidente Ciampi, motu proprio, gli conferì la cittadinanza italiana. Da allora, Staffan è una riserva della Repubblica e un'icona nazionale.
Vive a due passi da Piazza di Spagna, con la moglie francese, Genevienne, e due figlie. Con sublime affettazione circola su una 500 Giardinetta del 1966 e divide il tempo tra missioni e onori. Dopo la cittadinanza di Ciampi, il presidente Napolitano nel 2007 lo ha nominato Grande Ufficiale della Repubblica, l'Università di Genova gli ha dato una laurea honoris causa in Scienze strategiche, Assisi gli ha conferito la cittadinanza onoraria in nome della Pace, a Trieste è stato proclamato nel 2009 «dalmata dell'anno», nel 2010 ha ricevuto il premio Fiuggi di Cultura. In ciascuna di queste occasioni Staffan ripete, egualmente serio e commosso, l'aneddoto preferito sul come e perché decise di consacrarsi all'umanità.
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