Se ne vanno. Certamente. Forse. Magari dopo. Gli ex An all’interno del Pdl sono lo specchio delle esitazioni di Silvio Berlusconi. Sognano di separare i due corpi saldati nel 2008, Fi e An:saldati,appunto,ma mai uniti davvero. Se non lo fanno, se non lasciano, è perché non sanno bene quanto valgono allo stato attuale in termini elettorali. Stanno cercando di capirlo, ma non è facile. Di sicuro c’è che la doppia cifra a cui Alleanza Nazionale si era abituata negli anni d’oro del bipolarismo incompleto, tra il 1994 e il 2006, oggi è un miraggio. Bei tempi, quelli: gli ex missini ripuliti e candeggiati dalla svolta di Fiuggi prendevano alla Camera il 13,5 nel 1994, addirittura il 15,7 nel 1996, quindi un rispettabilissimo 12,0 nel 2001 e ancora un 12,3 nel 2006. All’incirca la metà dei vari bottini elettorali di Forza Italia, ciò che portò al momento della nascita del Pdl al varo della formula aurea 70-30, che definiva i rapporti di forza tra azzurri e post-missini, immutata anche dopo la diaspora dei finiani. Se questa regoletta fosse ancora valida, con il Pdl dato al 20 per cento sarebbe lecito stimare il peso elettorale degli aennini al 6 per cento. Un dato che non si discosta molto dalle valutazioni di sondaggisti e analisti politici. «Il progetto di una scissione degli ex An dal Pdl è credibile,visto che c’è in loro la voglia di tornare titolare, e li collocherei attorno al 7 per cento», dice Nicola Piepoli. «Gli ex An sono ancora molto forti sul territorio e malgrado il caso Fiorito mantengono una solida credibilità, e inoltre la loro scissione farebbe bene al centrodestra, differenziandone l’offerta, ma io non attribuirei loro più del 4-5 per cento dei voti», ipotizza Klaus Davi. Non dà cifre Luigi Crespi, secondo cui la prospettiva di un divorzio non è credibile, perché «nessuna persona può pensare seriamente di rifare An». Mentre Adriano Ferrari Nasi percepisce che gli ex An «si sentono gli occhi addosso ma non ci stanno a fare i capri espiatori del caso Lazio. E comunque già nel primo anno di vita del Pdl quanti volevano tornare a separare i due soggetti erano cresciuti dal 9 per cento del dicembre 2008 al 26 per cento del dicembre 2009. E ora sono certamente di più». Insomma, una nuova Alleanza Nazionale o la «Cosa di destra» che ne deriverebbe potrebbe strappare dal 4 al 7 per cento dei voti a livello nazionale. Ma all’interno del partito che ha un’anima ma non un luogo c’è il timore del bagno di sangue: andare addirittura sotto a quel fatidico 4 per cento che, nel sistema elettorale attuale, costituisce lo sbarramento per avere rappresentanza alla Camera qualora non si faccia parte di una coalizione predeterminata. Il fatto è che tra i post-missini c’è voglia di cambiamento,e il dissenso si manifesterà con l’astensionismo oppure con un pacchetto di voti in fuga verso Grillo o addirittura Matteo Renzi, che piace non solo agli ex di Forza Italia ma anche a molti delusi di destra. Da qui l’idea - nel caso - di mettere al sicuro il minimo vitale, la «quota 4», alleandosi con la Destra di Storace data in forte crescita di consensi o con qualche anima in pena di Futuro e Libertà che mai davvero ha sentito di avere cittadinanza politica nella sigletta di ripicca politica di Fini e Bocchino.
I consensi degli ex An sono tradizionalmente distribuiti in modo molto irregolare nella penisola, e in alcune regioni possono ancora pesare molto o addirittura fare la differenza. Come a Roma, storico laboratorio della destra sociale italiana, a cui afferiscono due dei colonnelli, Maurizio Gasparri e Gianni Alemanno, il «gabbiano» Fabio Rampelli, la sua figlioccia in grande ascesa Giorgia Meloni e quell’Andrea Augello che ha di fatto orchestrato ( con qualche pentimento postumo) l’elezione di Alemanno al Campidoglio e di Renata Polverini alla Pisana. A Roma, ma anche nel Lazio (vedi Rieti e Latina, storici feudi neri), è pensabile che una nuova An potrebbe sfiorare il 10 per cento, più o meno la metà del 19,1 toccato nelle elezioni 2006, le ultime politiche con Fi e An separati. E nel Lazio la probabile rinuncia al simbolo del Pdl alle prossime regionali, pretesa da Alemanno, rappresenta il primo passo verso un futuro incognito ma inesorabile.
An è sempre stata una forza radicata nel Centro-Sud. Al Nord ha un peso elettorale soprattutto in Friuli-Venezia Giulia, dove con il passaggio del ras triestino Roberto Menia in Fli, l’uomo forte è diventato Manlio Contento; e in parte in Piemonte, soprattutto a Torino, dove agisce Agostino Ghiglia. Poi ci sono feudi isolati, come la Como di Alessio Butti, che fa capo alla corrente Italia Protagonisti dei Gasparri e La Russa. Ma ben altri sono le riserve di caccia elettorale della destra storica: come le province di Lucca e di Grosseto che rispondono al colonnello Altero Matteoli, peraltro il più refrattario alla scissione. Matteoli in questi territori da solo sposta almeno un 5 per cento di voti, anche se è calda la delusione del 2011 per la perdita di Orbetello, di cui Matteoli era stato sindaco. Come la provincia di Piacenza di Tommaso Foti o le quelle di Ferrara e Rimini, dove An punterebbe al 7 per cento. Nelle Marche attualmente An «vale» almeno l’8 per cento, in particolare nelle province di Ascoli, Fermo e Macerata: qui è forte Carlo Ciccioli, larussiano. E a proposito di Ignazio La Russa, trascinerebbe An nella Sicilia Occidentale, in particolare a Paternò e dintorni, mentre a Barcellona Pozzo di Gotto e nel Messinese spicca Domenico Nania. C’è poi il Salento di Alfredo Mantovano, che solo a Lecce terrebbe An sopra la media regionali di un paio di punti e la zona di Mondragone nel Casertano, dove Mario Landolfi anni fa spinse An e il Pdl a consensi quasi plebiscitari.
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