L’arma della criminalizzazione dell’avversario politico, come si sa, è vecchia come il mondo. E se in questi ultimi mesi abbiamo visto paragonare un presidente del Consiglio liberamente eletto dalla maggioranza degli italiani a Hitler, Mussolini e al golpista argentino Videla, molto peggio era accaduto a Federico II di Svevia che alla metà del XIII secolo cercò di ripristinare la grandezza del Sacro Romano Impero della Nazione germanica fondato nel 962 da Ottone I di Sassonia. Se i ghibellini videro in lui lo strumento del giusto castigo divino che avrebbe punito lo strapotere del clero, il suo grande rivale, il pontefice Gregorio IX, dopo averlo scomunicato nel settembre del 1227, lo bollò del titolo di Anticristo. Da quel momento, la propaganda guelfa dipinse l’Imperatore come un convertito all’islam, un eretico negatore di tutte le religioni, diffondendo una leggenda nera che Dante avrebbe ripreso nella sua Commedia.
Salimbene de Adam avrebbe arricchito questa saga oscura di nuovi tenebrosi particolari nel libello, poi andato perduto, Le dodici scelleratezze di Federico Imperatore. Anche il monaco cistercense Gioacchino da Fiore fece la sua parte stilando una profezia che avrebbe dato luogo al mito secondo cui Federico II sarebbe ritornato a vivere, dopo mille anni dalla sua morte, per tornare a flagellare la cristianità nelle vesti di nuovo Nerone. Infine, nel primo decennio del Settecento, un erudito olandese rivelava che l’Imperatore tedesco doveva considerarsi come uno dei probabili autori del Trattato dei tre impostori, dove Mosè, Cristo e Maometto erano ritratti come avventurieri che avevano strumentalizzato la credulità dei loro adepti per soddisfare la propria brama di potere.
Proprio a partire dal XVII secolo, la leggenda nera fredericiana si tramutava tuttavia in leggenda aurea. Un pensatore che avrebbe anticipato molti temi dell’Illuminismo come Pietro Giannone esaltava nel principe svevo il creatore di un modello statale capace di aver ragione non solo delle forze disgregatrici del feudalesimo, ma soprattutto dell’ingerenza ecclesiastica nella vita pubblica. Dopo il 1870, numerosi storici tedeschi fecero di Federico il primo fondatore dello Stato assoluto superiore a ogni interesse particolare e idoneo a dare impulso alla volontà di potenza germanica. Nel 1933 anche il grande storico Ernest Kantorovicz scriveva al ministro dell’Educazione del Terzo Reich che «i miei scritti sull’Imperatore Federico II attestano pienamente il mio favore per una Germania nuovamente orientata in senso nazionale».
Molto diversa da tutte queste letture ideologiche è la monumentale biografia di Wolfang Stürner (Federico II e l’apogeo dell’Impero, Salerno Editore, pagg. 1127, euro 84), che dichiara di aver voluto «proporre una ponderata interpretazione dell’Imperatore che ne evitasse ad un tempo l’eccessiva esaltazione come pure la sottovalutazione». Questo contributo sarà utile al pubblico italiano per evitare di cadere in un altro diffuso fraintendimento della verità storica. Proprio nel nostro Paese, infatti, si propagò alla fine degli anni Trenta l’ipotesi che la creazione del Regno di Sicilia (comprensivo in realtà di gran parte del Meridione), da parte di Federico II, sarebbe stato il mezzo per sanare la frattura tra le «due Italie» che avevano progressivamente divaricato il loro percorso a partire dal crollo dell’Impero romano.
Il Nord, sottoposto all’influenza della cultura germanico-romana, e il Sud, soggetto all’egemonia di quella bizantino-islamica, avrebbero potuto ricomporre la loro antica ossatura unitaria, proprio perché il nuovo Regno sarebbe stato unito nella persona di Federico all’Impero germanico che dominava almeno nominalmente il comparto settentrionale della Penisola. Da questa saldatura, avrebbe scritto Gabriele Pepe nel 1938, sarebbe stato il Mezzogiorno a godere dei maggiori vantaggi. La simpatia dell’Imperatore svevo per la civiltà araba e la sua amicizia personale con il nipote del grande Saladino avrebbero fatto dei suoi porti un ponte teso fra cristianità e mediterraneo islamico. Inoltre la sua energica azione di governo sarebbe stata in grado di reprimere gli abusi del sistema feudale. Soltanto la morte di Federico, avvenuta nel dicembre 1250, concludeva Pepe, avrebbe interrotto questo grande disegno.
Il volume di Stürner ha il grande merito di demolire questa congettura, ricordandoci come i poteri effettivi di colui che fu definito dai suoi contemporanei «lo stupore del mondo», fossero in realtà del tutto inadatti a raggiungere questo obiettivo. In linea di principio il diritto romano codificato dal grande Giustiniano e l’unzione divina che aveva accompagnato la sua incoronazione sancivano pienamente la sua autorità. Tuttavia nella realtà Federico mancava di quel monopolio della decisione politica che caratterizzerà l’età moderna, ma che era del tutto assente nel mondo medioevale. Le prerogative dell’Imperatore facevano tutt’uno infatti con quelle dei principi tedeschi, laici ed ecclesiastici, che trovarono nel figlio Enrico, nominato nel 1220 re di Germania, un più «liberale» difensore dei loro privilegi. Lo scontro politico su questa cruciale questione portò alla fine a una vera e propria guerra del padre contro il suo diretto successore che, sconfitto nel 1235, venne privato di ogni diritto al trono.
Ma quei privilegi che Enrico voleva tutelare e ampliare e che Federico intendeva invece decisamente ridimensionare, non avrebbero mai potuto essere annientati, a meno di non voler distruggere con essi i titoli della legittima sovranità imperiale. Più risoluta fu invece la lotta dell’Imperatore per abbattere l’autonomia dei centri urbani del meridione italiano anche a costo di usare la mano forte come accade nella sanguinosa repressione della rivolta di Messina del 1234.
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