«Femminista, dico basta agli aborti»

Mentre parla, sottovoce e con fatica, la ginecologa Rossana Cirillo tiene gli occhi bassi. La parola che ricorre con più frequenza nel suo racconto è «pesante», declinata in tutte le varianti: «peso», «pesantezza», «pesava». In due ore e 51 minuti me la annoterò sul taccuino 15 volte. Dalle pareti dello studio sorridono in fotografia decine di neonati: «Una piccola parte di quelli che ho fatto nascere». Il contrasto con la tormentata mimica facciale della dottoressa è stridente.
Dirigente di primo livello nella divisione di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Villa Scassi a Genova, il medico Rossana Cirillo ha deciso dopo 25 anni di togliersi un peso, quel peso, dal cuore: non esegue più aborti. È diventata obiettrice di coscienza nel 2004.
Dal 22 maggio 1978, quando entrò in vigore la legge 194, ha praticato fino a 12 interruzioni di gravidanza la settimana. Dagli Anni 90, con l’ondata immigratoria di extracomunitarie, il numero degli interventi è raddoppiato. Per un quinquennio s’è trovata in sala operatoria da sola. È ragionevole supporre che nell’arco di 1.300 settimane abbia effettuato dai 13.000 ai 23.000 aborti. Forse l’istinto d’autoconservazione le ha impedito di tenere la tragica contabilità. Lei non ne parla, io non trovo il coraggio di chiedere.
La dottoressa Cirillo ha deposto cannula d’aspirazione e curette (il cucchiaio) ma non è diventata antiabortista. Anzi, continua a ritenere la 194 una buona legge, nonostante si rifiuti d’applicarla in prima persona. L’impressione è che la coerenza intellettuale faccia aggio sul travaglio interiore. Non può comportarsi altrimenti: entrerebbe in contraddizione con se stessa, con la sua storia di donna e di medico. Ai tempi dell’università animava con le compagne un gruppo d’autocoscienza. È stata tra le fondatrici del collettivo femminista permanente del Manifesto. Ha fatto la ginecologa per sei mesi in Nicaragua col Fronte sandinista. Benché non abbia mai sfogliato Il Giornale in vita sua, ha accettato l’intervista. Prima però è passata dalla pasticceria e al cronista venuto da 300 chilometri di gelo e nebbia fa trovare in ambulatorio tre brioche, due olandesine alla crema e un paio di focacce liguri: indipendentemente dal mio quintale di peso, non posso fare a meno di scorgere un tratto di tralignata generosità nel suo agire.
È nata in una famiglia «cattolica e conservatrice». Da bambina frequentava gli scout. Al liceo era impegnata nel volontariato. Confessa d’aver militato in Gioventù studentesca, ma quando le faccio notare che quel movimento fu fondato da don Luigi Giussani e si trasformò poi in Comunione e liberazione ancora una volta il suo istinto d’autoconservazione ha il sopravvento: «No, no, impossibile! Ma scherza? Non c’entrava nulla, era un’altra cosa». Inevitabile che confluisse nei cattolici del dissenso. «Andavamo a far visita alla comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, cercavamo di convincere il cardinale Giuseppe Siri che Gesù era povero, quelle cose lì...». Quando le fu chiaro che l’arcivescovo di Genova non avrebbe preso lezioni di catechismo da lei, abbandonò la Chiesa.
Ha figli?
«Due, di 23 e 22 anni. E sono già nonna di una nipotina, Matilde, che ha un anno e mezzo».
Come s’è sentita dopo aver preso la decisione di non praticare più aborti?
«Serena».
Perché ha smesso?
«Preferisco dirglielo alla fine».
In che modo hanno reagito i colleghi che continuano a praticare interruzioni di gravidanza?
«Sono stati comprensivi. Nessuno mi ha giudicata. Hanno capito che non potevo più andare avanti così. Chi mi conosce sa quali pesi ho portato sulle spalle. Per un lungo periodo sono stata l’unico medico di Villa Scassi a fare aborti. Dopo aver preso la decisione, ho aspettato sei mesi prima di smettere. Volevo essere sicura di non danneggiare il servizio».
E adesso?
«Vanno avanti i quattro colleghi non obiettori. Altri otto medici sono obiettori».
In famiglia che cosa le hanno detto?
«Sono stati solidali. Negli ultimi tempi i miei figli spesso mi chiedevano se non mi pesava troppo quello che facevo».
Hanno sempre saputo del suo lavoro?
«Sì, non sono cresciuti con un’educazione cattolica, non hanno il concetto di colpa, di peccato. Però il più grande nutriva qualche perplessità. È contento che abbia smesso».
È lui il padre di Matilde?
«Sì. È ancora studente. La sua ragazza è rimasta incinta».
Si sono chiesti se abortire?
«No, erano molto contenti. Hanno deciso fin da subito di tenersela. Per fortuna non c’erano di mezzo problemi economici ed è nata questa bambina stupenda».
Tornerebbe per qualche motivo a eseguire aborti?
«Be’, se si creassero le condizioni per cui non è garantito il servizio, dovrei riconsiderare la mia decisione».
Quindi non è una decisione definitiva.
«Niente è definitivo nella vita».
A parte la morte.
«Ogni giorno impariamo qualcosa. Le persone che hanno sicurezze assolute non mi convincono. Bisogna stare 25 anni in prima linea per capire... Chi parla pro o contro l’aborto questa realtà non la conosce».
L’Oms calcola che negli ultimi vent’anni siano stati praticati nel mondo un miliardo di aborti. Non le sembra una cifra impressionante?
«Penso che non sia l’unico male del mondo. Esistono anche le guerre, la fame. Negli Stati Uniti gli antiabortisti sono arrivati ad ammazzare i ginecologi che praticano le interruzioni di gravidanza».
In Italia si registrano ogni anno 540.000 nascite e 136.000 aborti. Il rapporto è di una vita soppressa ogni quattro.
«È un dato che dovrebbe far riflettere non solo le donne, ma anche qualcun altro».
Chi?
«I parlamentari che gestiscono le politiche familiari».
Giuliano Ferrara sostiene che finché l’aborto era clandestino faceva parte della legge morale individuale, quella che è «in me» secondo Kant. Un miliardo di aborti legali è diverso: esce da «me» e diventa «noi», ci riguarda, tutti.
«È una responsabilità collettiva anche il fatto che tante donne non possano permettersi d’avere un bambino».
Lo sa che l’aborto libero e legale fu introdotto per la prima volta con la rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia e per la seconda volta nel 1933 con l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania?
«Non vedo collegamenti con l’Italia, dove è diventato legale sulla base di un movimento d’opinione molto ampio. L’aborto esiste ed esisterà sempre».
Qual è l’identikit della donna che abortisce?
«Ceto medio, età 35-40 anni, sposata, due figli».
Quali sono i motivi per cui una donna rifiuta il bambino?
«Sono cambiati nel tempo. All’inizio influiva molto l’impossibilità d’assicurare al nascituro rapporti affettivi stabili. La gravidanza arrivava in una situazione familiare turbata, con i coniugi che litigavano. Tante pazienti erano giovanissime o tossicomani o avevano deciso a priori di non avere figli. Aggiungerei una ristretta minoranza di donne d’elevato livello culturale nelle quali agiva il desiderio inconscio di dimostrare a se stesse d’essere fertili. Soddisfatto quello...».
Aberrante.
«È un aspetto dell’animo umano».
E oggi?
«Si abortisce perché tutto dev’essere previsto e calcolato: il benessere economico, la carriera professionale, l’acquisto dei beni di consumo. Perciò si decide di fare un figlio solo in età avanzata. Del resto le giovani coppie vivono nella precarietà più totale, non hanno un lavoro fisso, non dispongono dell’alloggio».
Mi sta dicendo che si abortisce per soldi?
«Oggi prevalgono quelli. Negli Anni 80 contava di più l’aspetto interiore, il non sentirsi pronte, il non avere un compagno affidabile. Anche se ultimamente noto un aumento di coppie che, benché prive di sicurezze materiali, decidono di portare avanti la gravidanza. I venticinquenni sono più fiduciosi, positivi, aperti alla vita dei trentacinquenni».
E le immigrate perché ricorrono numerose alla 194?
«Non possono permettersi una gravidanza. Devono lavorare per mandare i soldi in patria, dove magari hanno già dei figli. Africane e ragazze dell’Est vengono qui a prostituirsi, per loro restare incinte è un incidente. Mi sono trovata ad affrontare 30-40 extracomunitarie al colpo, tutte di lingua diversa, assistita da una sola infermiera. Io parlo male l’inglese, ma anche le nigeriane non scherzano. Era impossibile capirsi. Spesso stentavo persino a comprendere se volevano abortire o no».
Il suo collega professor Claudio Giorlandino sostiene d’aver visto donne scegliere l’aborto solo perché il feto aveva sei dita ai piedi, una malformazione operabilissima.
«Io le avrei mandate dallo psichiatra per una consulenza. E comunque, trascorsi i primi 90 giorni, il medico può rifiutare l’intervento. Ho respinto richieste di aborto a 24 settimane. Da questo punto di vista mi sento pulita, in serena coscienza posso dire di non aver mai deciso se un bimbo malformato o mongoloide dovesse nascere oppure no. Era sempre e comunque una scelta della donna, non mia. Tra la madre e il bambino chi vogliamo salvare? Sottovalutare il disagio psichico della gestante significava mettere in conto il rischio di un suicidio. Così avrei perso entrambi».
L’embrione è una persona?
«Eeeh...». (Sorride nervosa). «L’embrione è una persona...». (Riflette). «No, fino a quando non ha una vita autonoma dalla madre».
Il feto è una persona?
«Il feto è una persona...». (Riflette). «Quando può vivere fuori dall’utero».
Cioè quando?
«Già a 24 settimane, più o meno. Dal 1978 a oggi le possibilità di vita autonoma si sono ampliate grazie alla neonatologia».
Le è capitato di praticare aborti a 23-24 settimane?
«Sì, ma in tempi molto remoti».
Che cosa provava nel ritrovarsi fra le mani esserini dai caratteri umani evidenti?
«Eh be’... Diciamo che...». (Tace per 21 secondi). «È una situazione piuttosto pesante. Ma anche vedere le mamme provate lo è. Non me la sentivo di far prevalere il mio disagio sui bisogni di queste donne».
Il feto a chi appartiene?
«A se stesso nella misura in cui è autonomo e alla madre nella misura in cui dipende da lei per la sopravvivenza».
Però la sua struttura vitale è diversa da quella della madre, tant’è vero che se le membrane placentari si rompono, e viene a stabilirsi un contatto diretto fra embrione e gestante, l’organismo di quest’ultima sviluppa degli anticorpi.
«Sì, però qui entriamo nel merito di questioni... Diciamo...». (Riflette). «È come dimostrare o meno l’esistenza di Dio. Chi può stabilire con certezza quando comincia il diritto alla vita?».
La madre dovrebbe essere in grado di autofecondarsi per affermare che il feto le appartiene.
«È vero. Però la donna porta avanti la gravidanza e partorisce. Se l’uomo non vuol partecipare, esce di casa per comprarsi le sigarette e non torna più. La donna ha più responsabilità reali».
Chi le ha insegnato a praticare gli aborti?
«L’isterosuzione col metodo Karman l’ho imparata da sola. Non è una pratica molto diversa dalla revisione della cavità uterina che si esegue nel 95% dei casi di aborto spontaneo. Cinque-dieci minuti in anestesia locale ed è tutto finito».
E dopo il terzo mese?
«Dalle 14 settimane in su la somministrazione delle prostaglandine induce l’aborto e le contrazioni dell’utero, con l’espulsione di un feto non vitale».
Le prostaglandine uccidono il feto?
«A volte sì, a volte no».
Quindi a volte esce vivo?
«Vivo ma non vitale per una manciata di secondi. Per fortuna è da anni che non vedo queste situazioni».
Ha detto «per fortuna».
«Non è una cosa piacevole per nessuno. Non è normale. È un dramma. È un dolore per i medici, per le ostetriche, per tutti. Chi pratica l’aborto non è un irresponsabile incapace di consigliare una scelta diversa. I medici non obiettori sono stati lasciati da soli in trincea, hanno il merito d’aver garantito l’applicazione di una legge dello Stato».
È favorevole alla presenza di volontari antiabortisti nei consultori?
«Ho più probabilità io, che non sono pregiudizialmente contraria all’aborto, di convincere una donna a tenersi il bambino. Sono più credibile».
Ma lei ci provava a convincere le gestanti a rinunciare all’aborto?
«Agli inizi, finché mi è stato possibile, sì».
Con quali argomenti?
«Uno solo: signora, non ho mai conosciuto una donna dispiaciuta d’aver scelto di far nascere un figlio».
E in seguito?
«L’impossibilità, per mancanza di tempo, d’instaurare un rapporto umano è diventata un peso insopportabile. Non avere la certezza che la donna di fronte a me era consapevole di ciò che comportava un aborto, mi ha spaventato. Mi sono chiesta: che cosa sto facendo?».
Ha mai prospettato a una gestante la possibilità di far nascere il figlio e di non riconoscerlo, come ammette la legge?
«No, assolutamente no».
Perché?
«La ritengo una forma di crudeltà. Come si fa a dirle di partorirlo e poi abbandonarlo? Non l’ho mai neppure pensato».
Se torna con la memoria al momento in cui entrava in sala operatoria per interrompere una gravidanza qual è la prima sensazione che le viene in mente?
(Ci pensa). «Ripetitività. Pesante».
Le sono capitati casi di donne che si sono pentite d’aver abortito?
«Sì. Spesso poi hanno avuto un altro figlio».
E donne la cui psiche è rimasta segnata per sempre?
«Ho visto persone soffrire per molti anni fino ad ammalarsi di tumori alla mammella. Più di un caso di questo genere, ho visto».
Dopo aver praticato un aborto è mai stata sfiorata dal dubbio d’aver commesso un omicidio?
«Sì».
Quante volte?
«Tutte le volte che mi sono sentita...». (Riflette). «...che ho sentito la distanza fra me e la donna, che non c’era dialogo con questa persona. Non usiamo la parola omicidio... Qualcosa che non aveva senso, qualcosa di non giusto».
Se tornasse indietro rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Sì».
Adesso può dirmi perché ha smesso di eseguire interruzioni di gravidanza?
«Ho cominciato a non credere più nelle ideologie, a dare importanza a quello che sentivo come vero. Ho aderito a me stessa, a ciò che è giusto e che mi fa star bene».
L’aborto non la faceva star bene.
«No, non mi faceva più star bene. Sono andata a un corso di meditazione tibetana con un maestro tedesco, nelle Marche. Di solito ti mettono in fondo a un pozzo e ti tirano su dopo tre settimane. Io sono rimasta da sola in silenzio per tre giorni e mezzo, chiusa in una stanza buia, le orecchie tappate, gli occhi tappati. Una deprivazione sensoriale totale. Essendo costretti a stare con se stessi, si va oltre se stessi. E lì non ho “pensato” che non me la sentivo più di praticare aborti: ho “sentito” che non me la sentivo più».
Capisco.
«Contemporaneamente è nata Matilde. Una gioia incredibile, un’emozione grandissima.

Vedere che la vita continua... Non è stata facile, la mia vita. Il mio primo marito è morto a 33 anni. Però la mia nipotina...». (Piange). «Ho sentito quanta vita c’è».
(313. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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