Cinque anni fa, come oggi, moriva Oriana Fallaci. Aveva 77 anni e alcuni cancri contro i quali ha combattuto con forza e rabbia. Ma questo accomuna quasi tutti gli esseri viventi. La sua specialità era un’altra: fare il contrario di quello che facevano i suoi simili. Il suo nemico era il conformismo, e lo ha battuto. Quando cominciò col giornalismo era una ragazzina. A quel tempo le donne in redazione erano mosche bianche. Forse proprio per questo rinunciò subito, al primo anno, a studiare medicina e cominciò a scrivere. Scriveva già come poi avrebbe sempre scritto: da dio. E non perché avesse doti divine. Era semplicemente una donna tenace, direi tignosa. Sulla pagina spremeva l’anima. Non come facciamo noi manovali della penna, che buttiamo giù in fretta quattro bischerate con il solo scopo che l’articolo stia in piedi. Lei scriveva,rileggeva e riscriveva. Quindi correggeva e stendeva di nuovo. Rileggeva ancora e ancora riscriveva. Era afflitta da una forma maniacale di perfezionismo. Su una parola perdeva mezza giornata. Su una virgola un paio d’ore.
Ha trascorso un’esistenza a battere e ribattere sui tasti. Ma quando consegnava la sua paginetta o le sue paginette nitide come cristalli, il calvario non era finito. Né per lei né per i disgraziati colleghi incaricati di titolare e impaginare. Ai quali stava accanto smoccolando durante tutta la fase della lavorazione. Ogni tanto aveva un pentimento e ribaltava ciò che era pronto. Da prenderla a sberle. Ricordo che negli anni Ottanta il direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, le aveva commissionato delle interviste impossibili: a Khomeini e Gheddafi, per esempio. Un delirio. Lei ci metteva mesi a imbastirle e cucirle. A un dato momento compariva al primo piano di via Solferino a Milano e attorno al tavolo albertiniano, una copia di quello del Times, si creava una confusione da manicomio. Oddio c’è la Fallaci: si salvi chi può. Mezza redazione era mobilitata: passare il testo, disegnare il menabò, scegliere i caratteri tipografici, mille verifiche e mille discussioni. Non andava mai bene niente. Avanti, ricominciamo daccapo. Meglio così? Meglio un corno, protestava lei dando del bischero a tutti.
La sua vittima preferita era Sandrino Rizzi. Sandrino perché era piccino quanto Oriana. E lei, dall’alto del suo metro e un soffio, lo chiamava Cosino. Cosino vieni qua. Cosino aggiusta là. Al tavolo mitico degli interni-esteri sedevo anch’io, addetto alla politica (maledizione). Osservavo le grandi manovre fallaciane con stupore e un pizzico di divertimento. Questa donna, pensavo, è una calamità.
La notte cessava il subbuglio. Si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d’inchiostro. All’improvviso si udiva un improperio. Era la Fallaci che aveva colto una virgola fuori posto. Tipografi che accorrevano con gli occhi sbarrati, correttori di bozze esausti e tremanti. Altro delirio. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un’occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un’automobile, svaniva nella notte insieme con i nostri incubi.
L’indomani il Corrierone con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d’assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della «matta» e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi d’aver partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: però, la «matta» ha colpito ancora.
Fu durante una di quelle notti infernali che la Fallaci entrò nella mia vita. Si accostò alla postazione di lavoro a me riservata e disse: «Senti bel giovane, te mi offriresti una sigaretta?». Il pacchetto di Muratti era lì accanto alla Olivetti portatile. «Prego», risposi. Le fumò tutte, una appresso all’altra. Fumava sempre. Cenere sparpagliata. Mozziconi accesi dimenticati in ogni angolo. Quando anche l’ultima sigaretta fu avidamente aspirata dai suoi polmoni, la signora commentò: «Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola».
«Cambierò marca», replicai.
«Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano. Ma era l’ultimo pacchetto?».
«Ne ho un altro, eccolo».
«Grazie. Sei proprio intelligente te». Si fumò anche quello. Tutto.
Alcuni anni dopo,passai dal Corriere della Sera all’ Europeo , il settimanale che aveva lanciato la Fallaci. Ricevetti una telefonata. Era lei. Mi chiese di incontrarla. Appuntamento in albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, al bar, si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere: «Tu sei quello delle Muratti?».
«Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris».
«Sei peggiorato».
Da quel dì la nostra tribolata amicizia si intrecciò col lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili rappacificazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmente rispondevo. Ma se sul display scorgevo il suo nome, pigiavo il tasto. «Pronto». Alterava la voce per non farsi riconoscere: «Sei te?», domandava con tono profondo.
Minimo minimo, trenta minuti di monologo suo infiorato di coloritissimi toscanismi, tra cui invettive variamente distribuite a Tizio e a Caio. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali e internazionali, pessimistiche. Con me si sfogava. Pretendeva che le dessi consigli che non ero in grado di dare: sui diritti d’autore, sui rapporti con gli editori, sulla sua eventuale adesione a inviti televisivi.
Constatata la mia inadeguatezza a suggerirle il da farsi, delusa o forse incredula, mi faceva capire che si era rotta le scatole e bruscamente si congedava. Così per anni. Periodicamente lasciava New York e veniva in Italia. In una circostanza la intervistai. Tragedia. Per licenziare l’elaborato sudammo ore e ore. Uscii distrutto dall’esperienza. Ma il risultato soddisfece Oriana, che volle dimostrarmi la sua gratitudine. Rientrata dagli Stati Uniti, concordammo una cena in via Senato, a Milano, ristorante da Alfio, allora di moda. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un borsone. «È tuo». Ne estrasse una pelliccia di visone tra lo stupore degli avventori, una cinquantina, tutti attratti dalla Fallaci e specialmente dal visone di foggia maschile, il mio. Dissimulai l’imbarazzo e cercai di manifestare gioia e anche qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all’idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato a indossare la pelliccia per non offenderla.
Oriana, vivendo gran parte dell’anno in America, era diventata americana anche nei gusti, almeno a riguardo dell’abbigliamento da uomo. Mangiava come un uccellino: tre o quattro acciughe salate, quattro granellini di riso insaporiti da una «strisciolina» di tartufo. E vino dolce: Malvasia, passito di Pantelleria. Raccontava storie recitando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i dettagli, i motteggi popolari, le battute sferzanti. Una serata con lei di buonumore era più spassosa e sapida che al cabaret. Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un’inezia. E non apriva più bocca se non per dire: «Oh te, s’è fatto tardi, portami via da qui».
Un dì decise di aiutarmi a lanciare Libero, che giudicava caritatevolmente un esperimento interessante. Mi mandò un articolo dei suoi. E nella redazione di quel giornalino ancora in rodaggio si replicò il casino già andato in scena al Corriere di Di Bella. Una baraonda la cui narrazione risparmio al lettore. Dico soltanto che grazie a quel pezzo Libero sfondò il tetto delle 100mila copie.Era il 2005,l’anno precedente la morte di Oriana.
Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava male. Le telefonate dall'America erano brevi ma frequenti: «Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più». Si stancava presto, aveva il fiato corto e troncava la comunicazione: «Ora ciao che devo morire». Che idiota ero e sono: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio. A giugno del 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un problema. «Rientro in Italia perché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi, mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrarmi in pubblico conciata in questo modo non mi garba. Dimmi te, che si fa? Aiutami». Percepii la sincerità e la disperazione. E non esitai a proporle il mio appartamento milanese. Accettò. Mi recai a riceverla e la accompagnai a destinazione. L’alloggio le piacque, salvo sacramentare per un gradino in cucina poco visibile e in cui avrebbe rischiato di inciampare. Rifiutò la collaborazione domestica della mia governante: «Me ne sto sola, tengo per me lo spettacolo osceno della fine. Tranne te, non sopporto la vista di alcuno che non sia indispensabile incontrare per le mie pratiche terminali».
Ogni pomeriggio suonavo. Per aprire la porta lei armeggiava dieci minuti. Entravo in casa mia e camminavo in punta di piedi perché mi sentivo invadente. Tutto in disordine, mozziconi ovunque. Al suo compleanno bevemmo un goccio di Dom Perignon, il suo preferito. Espresse un desiderio: che la tenessi al braccio per raggiungere, passino dopo passino, una salumeria vicina.
Si trattenne una settimana circa. Sbrigò le sue faccende e partì per Firenze con un’auto di piazza; litigò- mi disse poi - con l’autista per via dell’aria condizionata troppo alta. Mi telefonò ancora. Morì. Di lì a qualche tempo, presenziai a un convegno su di lei.C’era anche monsignor Rino Fisichella, che le era stato vicino. Il prelato mi consegnò un sacchetto di plastica: «Oriana mi ha raccomandato tanto di restituirti questa roba». Il sacchetto conteneva un bicchiere e un cucchiaino che aveva prelevato dalla mia credenza prima di trasferirsi a Firenze.
Le erano serviti per assumere un medicinale antidolorifico durante il viaggio.
Monsignor Fisichella mi precisò che era preoccupatissima di non farcela a restituirmeli. Aveva incaricato lui. Nulla doveva restare in sospeso. Questa è la mia Oriana.
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