Feroce e generosa Questa è la mia Oriana

Il carattere impossibile, i giudizi sferzanti, gli atteggiamenti da attrice. Un ricordo inedito dello scrittore a cinque anni dalla morte: la Fallaci raccontata da Vittorio Feltri

Feroce e generosa 
Questa è la mia Oriana

Cinque anni fa, come oggi, mori­va Oriana Fallaci. Aveva 77 anni e alcuni cancri contro i quali ha combattuto con forza e rabbia. Ma que­s­to accomuna quasi tutti gli esseri viven­ti. La sua specialità era un’altra: fare il contrario di quello che facevano i suoi si­mili. Il suo nemico era il conformismo, e lo ha battuto. Quando cominciò col gior­nalismo era una ragazzina. A quel tem­po le donne in redazione erano mosche bianche. Forse proprio per questo ri­nunciò subito, al primo anno, a studiare medicina e cominciò a scrivere. Scrive­va già come poi avrebbe sempre scritto: da dio. E non perché avesse doti divine. Era semplicemente una donna tenace, direi tignosa. Sulla pagina spremeva l’anima. Non come facciamo noi mano­vali della penna, che buttiamo giù in fret­ta quattro bischerate con il solo scopo che l’articolo stia in piedi. Lei scriveva,ri­leggeva e riscriveva. Quindi correggeva e stendeva di nuovo. Rileggeva ancora e ancora riscriveva. Era af­flitta da una forma maniacale di perfe­zionismo. Su una parola perdeva mez­za giornata. Su una virgola un paio d’ore.

Ha trascorso un’esistenza a batte­re e ribattere sui tasti. Ma quando consegnava la sua paginetta o le sue paginette nitide come cristalli, il cal­vario non era finito. Né per lei né per i disgraziati colleghi incaricati di tito­lare e impaginare. Ai quali stava ac­canto smoccolando durante tutta la fase della lavorazione. Ogni tanto aveva un pentimento e ribaltava ciò che era pronto. Da prenderla a sber­le. Ricordo che negli anni Ottanta il direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, le aveva commissio­nato delle interviste impossibili: a Khomeini e Gheddafi, per esempio. Un delirio. Lei ci metteva mesi a im­bastirle e cucirle. A un dato momen­to compariva al primo piano di via Solferino a Milano e attorno al tavolo albertiniano, una copia di quello del Times, si creava una confusione da manicomio. Oddio c’è la Fallaci: si salvi chi può. Mezza redazione era mobilitata: passare il testo, disegna­re il menabò, scegliere i caratteri tipo­grafici, mille verifiche e mille discus­sioni. Non andava mai bene niente. Avanti, ricominciamo daccapo. Me­glio così? Meglio un corno, prote­stava lei dando del bische­ro a tutti.

La sua vittima pre­ferita era Sandri­no Rizzi. Sandri­no perché era piccino quan­to Oriana. E lei, dall’alto del suo me­tro e un sof­fio, lo chiama­va Cosino. Co­sino vieni qua. Cosino aggiusta là. Al tavolo mitico degli interni-esteri se­devo anch’io, addetto alla politica (maledizione). Osserva­vo le grandi manovre fallaciane con stupore e un pizzico di divertimento. Questa donna, pensavo, è una cala­mità.

La notte cessava il subbuglio. Si ri­leggevano in religioso silenzio i bozzo­ni delle pagine umidi e odoranti d’in­chiostro. All’improvviso si udiva un improperio. Era la Fallaci che aveva colto una virgola fuori posto. Tipogra­fi che accorrevano con gli occhi sbar­rati, correttori di bozze esausti e tre­manti. Altro delirio. Alle due del matti­no, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un’oc­chiata di commiserazione a noi pove­ri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lun­go lo scalone e, inghiottita da un’auto­mobile, svaniva nella notte insieme con i nostri incubi.

L’indomani il Corrierone con la per­la di Oriana in apertura di prima pagi­na era preso d’assalto in edicola. Ol­tre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che ripren­deva la prosa della «matta» e ne face­va oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgo­gliosi d’aver partecipato alla costru­zione del capolavoro di successo, e go­dendo di riflesso della gloria di Oria­na, si davano di gomito: però, la «mat­ta» ha colpito ancora.

Fu durante una di quelle notti infer­nali che la Fallaci entrò nella mia vita. Si accostò alla postazione di lavoro a me riservata e disse: «Senti bel giova­ne, te mi offriresti una sigaretta?». Il pacchetto di Muratti era lì accanto al­la Olivetti portatile. «Prego», risposi. Le fumò tutte, una appresso all’altra. Fumava sempre. Cenere sparpaglia­ta. Mozziconi accesi dimenticati in ogni angolo. Quando anche l’ultima sigaretta fu avidamente aspirata dai suoi polmoni, la signora commentò: «Le Muratti non sono buone, pizzica­no in gola».

«Cambierò marca», replicai.

«Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano. Ma era l’ultimo pac­chetto?».

«Ne ho un altro, eccolo».

«Grazie. Sei proprio intelligente te». Si fumò anche quello. Tutto.

Alcuni anni dopo,passai dal Corrie­re della Sera all’ Europeo , il settimana­le che aveva lanciato la Fallaci. Rice­vetti una telefonata. Era lei. Mi chiese di incontrarla. Appuntamento in al­bergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, al bar, si alzò dalla poltrona e scoppiò a ride­re: «Tu sei quello delle Muratti?».

«Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris».

«Sei peggiorato».

Da quel dì la nostra tribolata amici­zia si intrecciò col lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili rappacifi­cazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmen­te rispondevo. Ma se sul display scor­gevo il suo nome, pigiavo il tasto. «Pronto». Alterava la voce per non far­si riconoscere: «Sei te?», domandava con tono profondo.

Minimo minimo, trenta minuti di monologo suo infiorato di coloritissi­mi toscanismi, tra cui invettive varia­mente distribuite a Tizio e a Caio. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali e internazio­nali, pessimistiche. Con me si sfoga­va. Pretendeva che le dessi consigli che non ero in grado di dare: sui diritti d’autore, sui rapporti con gli editori, sulla sua eventuale adesione a inviti televisivi.

Constatata la mia inadeguatezza a suggerirle il da farsi, delusa o forse in­credula, mi faceva capire che si era rot­ta le scatole e bruscamente si conge­dava. Così per anni. Periodicamente lasciava New York e veniva in Italia. In una circostanza la intervistai. Trage­dia. Per licenziare l’elaborato sudam­mo ore e ore. Uscii distrutto dall’espe­rienza. Ma il risultato soddisfece Oria­na, che volle dimostrarmi la sua grati­tudine. Rientrata dagli Stati Uniti, con­cordammo una cena in via Senato, a Milano, ristorante da Alfio, allora di moda. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un bor­sone. «È tuo». Ne estrasse una pellic­cia di visone tra lo stupore degli avventori, una cinquantina, tutti attratti dal­la Fallaci e specialmente dal visone di foggia maschile, il mio. Dissimulai l’imbarazzo e cercai di manifestare gioia e anche qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all’idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato a in­dossare la pelliccia per non offender­la.

Oriana, vivendo gran parte dell’an­no in America, era diventata america­na anche nei gusti, almeno a riguardo dell’abbigliamento da uomo. Mangia­va come un uccellino: tre o quattro ac­ciughe salate, quattro granellini di ri­so insaporiti da una «strisciolina» di tartufo. E vino dolce: Malvasia, passi­to di Pantelleria. Raccontava storie re­citando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i detta­gli, i motteggi popolari, le battute sfer­zanti. Una serata con lei di buonumo­re era più spassosa e sapida che al ca­baret. Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un’inezia. E non apriva più bocca se non per dire: «Oh te, s’è fatto tardi, portami via da qui».

Un dì decise di aiutarmi a lanciare Libero, che giudicava caritatevolmen­te un esperimento interessante. Mi mandò un articolo dei suoi. E nella re­dazione di quel giornalino ancora in rodaggio si replicò il casino già anda­to in scena al Corriere di Di Bella. Una baraonda la cui narrazione risparmio al lettore. Dico soltanto che grazie a quel pezzo Libero sfondò il tetto delle 100mila copie.Era il 2005,l’anno pre­cedente la morte di Oriana.

Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava male. Le telefonate dall'America erano brevi ma frequenti: «Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più». Si stanca­va presto, aveva il fiato corto e tronca­va la comunicazione: «Ora ciao che devo morire». Che idiota ero e sono: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio. A giugno del 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un proble­ma. «Rientro in Italia perché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi, mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrar­mi in pubblico conciata in questo mo­do non mi garba. Dimmi te, che si fa? Aiutami». Percepii la sincerità e la di­sperazione. E non esitai a proporle il mio appartamento milanese. Accet­tò. Mi recai a riceverla e la accompa­gnai a destinazione. L’alloggio le piac­que, salvo sacramentare per un gradi­no in cucina poco visibile e in cui avrebbe rischiato di inciampare. Ri­fiutò la collaborazione domestica del­la mia governante: «Me ne sto sola, tengo per me lo spettacolo osceno del­la fine. Tranne te, non sopporto la vi­st­a di alcuno che non sia indispensabi­le incontrare per le mie pratiche termi­nali».

Ogni pomeriggio suonavo. Per apri­re la porta lei armeggiava dieci minu­ti. Entravo in casa mia e camminavo in punta di piedi perché mi sentivo in­vadente. Tutto in disordine, mozzico­ni ovunque. Al suo compleanno be­vemmo un goccio di Dom Perignon, il suo preferito. Espresse un desiderio: che la tenessi al braccio per raggiunge­re, passino dopo passino, una salume­ria vicina.

Si trattenne una settimana circa. Sbrigò le sue faccende e partì per Fi­renze con un’auto di piazza; litigò- mi disse poi - con l’autista per via del­l’aria condizionata troppo alta. Mi te­lefonò ancora. Morì. Di lì a qualche tempo, presenziai a un convegno su di lei.C’era anche monsignor Rino Fi­sichella, che le era stato vicino. Il pre­lato mi consegnò un sacchetto di pla­stica: «Oriana mi ha raccomandato tanto di restituirti questa roba». Il sac­chetto conteneva un bicchiere e un cucchiaino che aveva prelevato dalla mia credenza prima di trasferirsi a Fi­renze.

Le erano serviti per assumere un medicinale antidolorifico durante il viaggio.

Monsignor Fisichella mi precisò che era preoccupatissima di non far­cela a restituirmeli. Aveva incaricato lui. Nulla doveva restare in sospeso. Questa è la mia Oriana. ­

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica