Otto settembre. Ogni anniversario riporta a quella tragedia, la maggiore forse della nostra storia. Ci aiuta adesso a tener vivo il ricordo dellumiliante «tutti a casa» un libro di Luciano Garibaldi dedicato a due uomini dinsigne lignaggio e di straordinario coraggio: i generali Maurizio e Ferrante Gonzaga, padre e figlio. Comandante della 53ª divisione di fanteria, nella prima guerra mondiale, Maurizio Gonzaga; comandante della 222ª divisione costiera, nella seconda guerra mondiale, Ferrante Gonzaga. Entrambi insigniti di medaglia doro al valor militare (Maurizio e Ferrante Gonzaga. Storia di due eroi, Edizioni Ares, pagg. 184, euro 15).
Basterebbe questo per legittimare la duplice biografia in cui Luciano Garibaldi sè impegnato. Ma nella tragica vicenda del Gonzaga figlio vè un elemento che la distingue da tante altre del crollo militare italiano. Come reca il titolo dun capitolo del volume, Ferrante Gonzaga fu «il primo caduto della guerra di liberazione». Venne infatti ucciso dai tedeschi esattamente unora dopo lannuncio della resa. Laccaduto fu narrato diffusamente sia in saggi storici, sia in testimonianze dirette. In sostanza accadde che il generale tedesco Sieckenius, comandante della 16ª Panzerdivision dislocata - come la 222ª divisione costiera italiana - nel Salernitano, non appena saputo della capitolazione inviò un suo ufficiale, il maggiore von Alvensleben scortato da soldati e mezzi corazzati, a parlamentare con il generale italiano. Il maggiore e il generale si conoscevano e stimavano. Alvensleben chiese che gli italiani consegnassero le armi, il generale rifiutò, secondo qualcuno Ferrante estrasse dalla fondina la pistola dordinanza gridando «Un Gonzaga non si arrende mai. Viva lItalia», secondo altri il generale portò la mano alla pistola gridando «Allarmi!». Sta di fatto che una sventagliata di mitra lo freddò.
Fu proprio, Ferrante Gonzaga, il primo caduto negli scontri con i tedeschi? Difficile rispondere. Gli avvenimenti tumultuosi del dopo-armistizio coinvolsero centinaia di migliaia di militari in aree lontanissime. La decomposizione delle forze italiane fu così rapida e massiccia che la Wehrmacht dovette impegnarsi - fatti salvi rarissimi episodi - non in battaglie ma in un immane rastrellamento. Ma vi fu chi si oppose, e sfidò gli ex camerati. Lo fece, mentre ancora durava leco delle frasi terribili di Badoglio, Ferrante Gonzaga, forse lo fece, a grande distanza, qualche ignoto soldatino. Certo è che atti di orgoglio e sacrifici come quello del generale sono bagliori di luce che illuminano una vicenda tenebrosa, sono rare pepite doro in una sterminata distesa di fango. Dobbiamo tenerceli stretti, quei momenti degni.
Ci rincuorano. Ma a mio avviso non devono dar pretesto a un filone revisionistico - condiviso da Carlo Azeglio Ciampi - secondo il quale lotto settemnbre non fu - con le eccezioni cui ci aggrappiamo - la data della viltà e dello sfacelo, ma invece lalba dun nuovo risorgimento, il riscatto dItalia. Nella documentazione che Luciano Garibaldi ha consultato, e che cita distesamente, vi sono anche alcune lettere del generale alla sorella Maria, precedenti larmistizio. In una del 18 luglio 1943 annota angosciato: «Lavoro quasi a vuoto perché tutti scappano e non rispondono... In Sicilia gli affari vanno molto male, i siciliani dei paesi occupati si sono messi a disposizione del nemico e lo aiutano lavorando per lui... Se non si vuole più continuare a combattere la si faccia finita: ma se si vuole resistere si prenda lo scudiscio e lo si dia vigorosamente sulla faccia a tutti i poltroni».
Il suo colpo di scudiscio ai poltroni, il generale lha dato morendo.
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