L'umida
portineria di Torino in cui venne al mondo Riccardo Ruggeri,
al numero 9 di piazza Vittorio Veneto, misurava 15 metri quadrati.
Il lavandino con l'acqua corrente e il gabinetto erano in cortile.
All'ingresso un tavolino con sopra un vaso, dentro il quale la
portinaia Maria Caterina, la nonna di Ruggeri, sistemava con amorosa
simmetria i fiori appassiti scartati dal conte Prato Previde,
proprietario del palazzo. Oltre il paravento, le brandine pieghevoli
che venivano aperte solo per la notte. Ci dormivano Carlo, operaio alla
Fiat, figlio della portinaia, e sua moglie Brunilde, che sarebbe
diventata a sua volta operaia alla Fiat dopo la prematura morte del
marito: i genitori di Ruggeri. Oltre il tramezzo, la camera di nonno
Giovanni, operaio alla Fiat, e di nonna Maria Caterina, che ben
volentieri cedettero il loro letto matrimoniale alla nuora affinché il 6
dicembre 1934 potesse partorirvi Riccardo.
Anche Riccardo
Ruggeri è stato operaio alla Fiat. Era il 1953 quando fu assunto nello
stabilimento di Mirafiori. Solo che poi ha fatto carriera, fino a
lavorare con Gianni e Umberto Agnelli. Ha conosciuto il mitico
presidente Vittorio Valletta e l'ingegner Dante Giacosa, il
progettista della 500 e della 600. Ha collaborato con Carlo De Benedetti
e Cesare Romiti. Ha negoziato con Muammar Gheddafi e Saddam Hussein.
Ha ritirato il Queen's Award dalle mani della regina Elisabetta
d'Inghilterra. Ha consegnato medaglia e pergamena a suo figlio Carlo,
principe di Galles, dopo una finale di polo. Ha trascorso piacevoli
pomeriggi a Windsor con il principe Filippo, Lady Diana e Camilla
Parker Bowles. Ha sollecitato l'ingegner Enzo Ferrari a pagargli certe
fatture per le vernici rosse dei bolidi di Maranello che erano rimaste
inevase, ricevendone in cambio un vaticinio: «Lei è destinato a fare
una grande carriera, in Fiat o altrove». Ha avuto l'onore d'essere uno
dei cinque non americani insigniti della laurea honoris causa in legge
nei 140 anni di storia della Loyola University di Chicago.
Ha fatto
qualcosa di più, l'operaio Ruggeri Riccardo, fu Carlo, tornitore
nell'officina 5 di Mirafiori, nominato prima impiegato, poi
dirigente, quindi amministratore delegato di varie società,
infine componente del comitato direttivo di Fiat holding, il sancta
sanctorum presieduto dall'Avvocato dove
venivano prese le decisioni strategiche del gruppo: nella sua veste di
chef executiveofficer della New Holland, ha macinato utili su utili
e mantenuto a galla l'intera baracca.
Ruggeri è stato il Sergio
Marchionne degli anni Novanta. Ha fatto con i trattori quello che il
manager italo-canadese sta tentando di fare con l'auto. Nel 1991 ha
fuso insieme due rami d'azienda virtualmente falliti: da una parte
Fiat trattori e Fiatallis, dall'altra Ford tractors. Un'operazione
complessa quanto quella che Marchionne ha condotto su Fiat auto e
Chrysler, perché ne è nato un colosso, New Holland appunto, con 33.000
dipendenti e 21 stabilimenti in quattro continenti, presente con le sue
macchine per movimento terra (trattori, mietitrebbie, escavatori) in 140 Paesi del mondo, contro le 48 nazioni in cui sono attualmente vendute le auto del marchio torinese.
Quando l'ex operaio si lanciò in quest'avventura, New Holland
fatturava 2,5 miliardi di dollari.Trascorsi cinque anni,l'aveva portata
a 6 miliardi con la metà dei dipendenti. Al cambio dell'epoca,fanno
quasi 10.000 miliardi di lire. Oggi fattura 12 miliardi di dollari.
Il coronamento del piano di salvataggio fu la quotazione a Wall Street,
dove New Holland fu valutata 32 volte il patrimonio netto iniziale. Ma
a Ruggeri negarono la gioia di suonare la
campanella nel primo giorno di contrattazioni del titolo alla Borsa di
New York. Prima del lieto evento, da Torino arrivò nel suo ufficio di
Londra un altissimo funzionario. «Mi notificò che, avendo 61 anni
compiuti, dovevo andarmene in pensione». L'anonimo collega incaricato di
dargli il benservito di anni ne aveva 67. Ruggeri si limitò a fargli
presente che forse i gerontocrati di corso Marconi avrebbero dovuto se
non altro affidare per delicatezza l'ambasciata a un missus dominicus
meno attempato.
Riccardo Ruggeri non ha mai recriminato. Chiusa
l'esperienza di una vita, ha intrapreso varie attività. Ha creato con
nuora e figlio un'industria di moda d'avanguardia che ha lanciato a
livello planetario un visionario stilista scoperto in California, Rick
Owens, oggi celebre per la sua maison di Parigi. Ha scritto tre libri
in due anni: Parola di Marchionne ,
uscito nel marzo 2010, anticipava molte delle domande che avrebbero
intasato le prime pagine dei quotidiani nei mesi successivi. Ha fondato
una casa editrice, battezzata Grantorino in omaggio alla squadra del
Toro di Valentino Mazzola e al modello di auto idolatrato da Clint
Eastwood nell'omonimo film.
Accollandosi
i costi vivi per produrre i libri, Ruggeri devolve i ricavi a
un'organizzazione cristiana creata da Pierre Tami, un ex pilota della
Swissair che ha tolto dalla strada 3.000 prostitute e le ha
trasformate in operaie nella più importante azienda di catering
della Cambogia.
Però gli leggi negli occhi che la Fiat resta il
suo grande amore, anche se ne è fuori da 15 anni. E infatti ci ha
investito come azionista. «Nella testa sono rimasto quello che ero:
un operaio. Niente fumo, niente droghe, niente superalcolici. Mai
stato sul lettino dell'analista. Mai frequentato centri benessere,
anche perché non possiedo un accappatoio. Per muovermi in città uso le
gambe o i taxi. Amo la stessa donna, Lilli, da 50 anni: a maggio
festeggeremo le nozze d'oro. Ho due figli, Luca, 48 anni, e Fabio,
46, anche loro con una moglie sola, e quattro nipotini che adoro.
Non vedo i talk show politico-gossipari in Tv. Come ogni
euroamericano di buonsenso, voto di volta in volta per il meno
peggio. È già tanto che non sia diventato comunista».
Ha corso questo rischio?
«Fin dalla nascita. Mio nonno lo era. Gli amici lo chiamavano Stalin.
Nel portafoglio, che usava solo la domenica, teneva un santino di
Baffone in alta uniforme. Mi ripeteva fino alla noia che Stalin in russo
significa acciaio e non a caso lui alle Ferriere Fiat era addetto
all'altoforno 5, quello degli acciai speciali. Nel 1962 investii i miei
pochi risparmi in uno dei primi viaggi turistici a Mosca. Ero curioso di
capire se avesse ragione il nonno, che considerava l'Urss il paradiso
in terra, oppure mio padre, che da buon socialista definiva
nazicomunismo la dittatura sovietica del
proletariato. Entrambi erano morti nel 1947 e non si erano mai mossi da
Torino. Viaggiai su uno scassato quadrimotore Ilyushin. Mi ci volle
poco per capire che aveva ragione mio padre».
E la mamma?
«Era
di Aulla, provincia di Massa e Carrara, dove pianti fagioli e crescono
anarchici. Quindi anarchica. Invece mia nonna stravedeva per don Luigi
Sturzo. Eravamo tutti antifascisti, ma soprattutto ci volevamo bene.
È sempre stata questa la mia forza. Insieme con la portineria».
In che senso?
«Nella
portineria ho avuto una scuola di vita. Ci passavano persone d'ogni
tipo:ne ho viste più di qualsiasi altro bambino della mia età. Era uno
spaccato sociologico senza pari, un libro aperto. A pianterreno, i
portinai: la massima povertà, vivevamo come gli immigrati
extracomunitari di oggi. All'ammezzato, le basse professioni:
l'infermiera che faceva le punture, la modista, la levatrice. Al piano
nobile, il conte Prato Previde con la signora contessa: gli unici
che potevano usare l'ascensore. Al quarto piano, i figli già adulti
del conte. Nelle soffitte, la servitù del conte e i miniappartamenti
affittati agli studenti universitari, figli di latifondisti amici del
conte, che venivano dalla provincia per studiare a Torino».
Ha dimenticato il terzo piano.
«L'ho
tenuto per ultimo perché merita una trattazione a parte. Era il piano
del grande professionista. Ospitava studio e abitazione
dell'architetto Ettore Sottsass senior. Il figlio Ettore Sottsass
junior, neolaureato pure lui in architettura e antipaticissimo,
pretendeva che lo chiamassi "signorino". Faceva battute su di me, rideva
sguaiatamente. Mi trattava come un servo ed era pacifico che tale mi
riteneva. Visto il via vai di donnine allegre quando suo padre non
era in casa, mia nonna diceva che sarebbemorto giovane di sifilide.
Mai profezia si rivelò più fallace: diventò un designer osannato dalla
critica, sposò la scrittrice Fernanda Pivano e cessò di vivere nel
2007 a 91 anni».
Per un figlio di povera gente, a quel tempo diventare operaio era una scelta o un destino ineluttabile?
«La seconda che ha detto. Fin da bambino mi sono allenato alla disciplina della scarsità. Non ho mai pensato di poter diventare null'altro che questo».
Oggi se mio figlio venisse a dirmi che vuol fare l'operaio, mi piglierebbe un colpo.
«Gli
operai della Fiat erano l'élite del proletariato, guadagnavano quasi
il doppio di un tranviere. Vigeva la meritocrazia. Un addetto alla
catena di montaggio poteva far carriera. Mio padre conosceva il
francese perché era nato ad Apt, in Provenza, aveva studiato per conto
suo l'inglese, leggeva tantissimo. A un certo punto fu promosso da
operaio a impiegato. Poi, siccome rifiutò la tessera del
Partito nazionale fascista, fu degradato e tornò a fare l'operaio.
Caduto il regime, si vide affidare il ruolo di capufficio da un collega
che lo aveva preso in simpatia, Eugenio Sulotto, un comunista
diventato il dominus del Lingotto dopo la Liberazione e in seguito
eletto deputato del Pci. Passato qualche mese, Sulotto pretendeva che
mio padre s'iscrivesse al partito di Togliatti. Papà si oppose e venne
di nuovo retrocesso. A 40 anni fu stroncato da una cardiopatia».
Lei in che modo fu assunto alla Fiat?
«È
come se la vita di mio padre, alla sua morte, fosse confluita nella
mia. Spirò il 24 dicembre del 1947. Alle 9 di mattina del giorno di
Natale sentimmo bussare alla porta. Pensavamo che fosse il necroforo.
Invece entrò Maria Rubiolo, potentissima responsabile della
comunicazione Fiat e stretta collaboratrice di Valletta. Accarezzò la
salma, sostò in preghiera, poi chiese a mia madre: "Che cosa pensa di
fare?". La mamma, stordita, non seppe rispondere. Allora la Rubiolo le
disse: "Se vuole, lei è assunta in Fiat. Il 7 gennaio, alle 8, si
presenti all'ingegner Perosino". E la vuol sapere una cosa? Quando mia
madre è morta, ho trovato fra le carte il suo libretto di lavoro e sopra
c'era scritto: "Assunta il 25 dicembre 1947". Capisce? Per la
Rubiolo era entrata in azienda il giorno di Natale, quando le aveva
offerto il posto. Questa era la Fiat di Valletta. La Rubiolo partecipò
al funerale, che fu celebrato a spese dell'azienda presenti due
commessi in alta uniforme, diede l'ordine di raddoppiare la
liquidazione di mio padre e ne destinò una parte a me, che avevo solo
13 anni, nominando un tutore fino alla maggiore età. Il giorno in
cui compii 21 anni, telefonarono dalla Fiat: "Venga a ritirare i
suoi soldi". Erano 600.000 lire, 11 miei stipendi. Evidentemente li
avevano investiti bene e fatti fruttare. Tre anni prima la Rubiolo
mi aveva assunto, " intanto come operaio", disse, "poi si vedrà,
nel frattempo studia molto". Seguii alla lettera il suo consiglio,
diplomandomi perito tecnico alle scuole serali».
Come riuscì a far carriera?
«Dopo alcuni anni da operaio, fui promosso impiegato alla
progettazione motori. Ma stavo sulle balle ai capi perché andavo a
chiedergli in continuazione lavoro, non sopportavo di stare con le
mani in mano. Ero il loro incubo, per 20 anni mi hanno spostato da un
ufficio all'altro. Un'esperienza unica per capire come funziona una
grande azienda. Il direttore generale Gian Mario Rossignolo mi chiese
di preparargli un piano di ristrutturazione organizzativa. Glielo
consegnai il venerdì sera. La domenica mattina mi convocò a casa sua:
"Lo tenga per sé: il nuovo amministratore delegato, Carlo De
Benedetti, mi ha licenziato". Il lunedì alle 8 arrivò in azienda De
Benedetti, che riunì i capi e annunciò: "Io ho comprato il 7% della
Fiat. Non concepisco che una persona faccia
il manager in un'azienda senza esserne azionista. Qui chi si occupa di
personale e organizzazione?". Alzai la mano. " Bene. Tutte le persone
dello staff le collochi nelle varie società oppure le licenzi. E si
ricordi che un coglione resta un coglione ovunque lo piazzi. Poi spenga
la luce e si cerchi un altro lavoro". Avrà anche avuto il pelo sullo
stomaco, però mi fece comprendere una verità fondamentale: i costi sono
più importanti dei ricavi. Rimasi con De Benedetti nei 100 giorni che
trascorse in Fiat prima d'essere bruscamente messo alla porta
dall'Avvocato. Per me fu un master breve».
E dopo?
«Diventai
amministratore delegato di alcune aziende del gruppo che andavano
male. Una stagione fortunata, perché nessuno viene a dirti che cosa
devi o non devi fare, puoi applicare qualsiasi terapia d'urto e rispondi
solo del risultato finale. Ero libero, un imprenditore vero, trattavo
le società come se fossero mie. La prima fu l'Ivi, l'Industria vernici
italiane di Milano. Poi per sette anni sono stato presidente del
consorzio Fiat-Oto Melara. Ho venduto carri armati e blindati in mezzo
mondo, commesse da 300 milioni di dollari al colpo. Uno dei miei
interlocutori era l'ammiraglio Fulvio Martini, capo del Sismi, il
servizio segreto militare. Diventammo amici. Un Natale pasteggiammo
con il caviale e la vodka che gli mandava in dono da Mosca il suo
omologo del Kgb, Vladimir Kryuchkov,ritenutodalla Cia l'organizzatore
del golpe contro il presidente Mikhail Gorbaciov, fallito nel 1991. Al
ritorno dal Medio Oriente, io riferivo a Martini dei rapporti
commerciali con l'Irak, in guerra con l'Iran, però avevo la netta
sensazione che già li conoscesse. Una sera mi confessò: "Il mio è un
mestiere talmente sporco che può farlo solo un gentiluomo"».
Non che il suo, piazzista di strumenti per uccidere, fosse più pulito.
«Se
si fanno le guerre, ci vogliono le armi. L'ideale sarebbe non fare le
guerre. Ma l'Italia non è la Svizzera, dove ogni cittadino si tiene il
fucile appeso al muro per difendere al massimo la propria casa.
Comunque non ho mai venduto mine antiuomo, se la cosa può
interessarle.L'avrei considerata un'attività immorale».
Che fece per tramutare in profitti le perdite di Fiat e Ford nel ramo trattori?
«Due cose che all'inizio ha fatto anche Marchionne. Tagliai le fasce
alte del management, quelle che portavano a casa ricchi stipendi; un
disboscamento complicato dalle legislazioni dei 12 Paesi in cui operava
New Holland, ma compiuto nel rispetto delle regole e con molti
incentivi all'esodo. Poi eliminai i livelli gerarchici intermedi. Di
33.000 dipendenti, ne restarono 17.000. Non convocavo mai un manager
nel mio ufficio di Londra per parlargli: fra voli, soggiorno in hotel e
indennità varie mi sarebbe costato un patrimonio. Il 12 di ogni mese
registravo in italiano una videocassetta per illustrare risultati e
prospettive, sottotitolata in inglese, francese, fiammingo e
portoghese. Durava 12 minuti, limite oltre il quale l'attenzione
decade. Nel pomeriggio il filmato veniva spedito in 140 Paesi
dall'aeroporto di Heathrow».
Il nome New Holland chi lo scelse?
«Io.
Avevo a disposizione 20 marchi. Preferii il nome di questa cittadina
della contea di Lancaster, in Pennsylvania, dove fu inventata la
mietitrebbia e girato Il testimone ,
il film con Harrison Ford. Ci vive la comunità degli amish, quelli che
rifiutano la modernità, inclusa l'irrigazione artificiale, e infatti
s'insediano solo in regioni dove sia assicurato il ciclo naturale
della pioggia. Si muovono col calesse e non usano il trattore».
Alla fine perché fu costretto ad andarsene, nonostante i brillanti risultati conseguiti?
«Colpa mia. Eccesso di successo. Le grandi burocrazie, e la Fiat lo è,
non tollerano i diversi. Quattro mesi prima che mi cacciassero,
capii che volevano farlo ma non sapevano come dirmelo, visto che ero
l'unico a portare ricchi utili a Torino. Così andai a trovare Umberto
Agnelli, col quale avevo un rapporto straordinario; fral'altro suo
figlio Giovannino era stato compagno di scuola dei miei figli al
collegio San Giuseppe. Ormai non contava più nulla. Fu schietto, com'era
suo costume: "Le voci che girano sono vere. Sono curioso di vedere
che modo escogiteranno per estrometterti". Scelsero il più banale: i
raggiunti limiti d'età. Un espediente da burocrati. Be', non hanno mai
saputo il favore che mi hanno fatto. È come se m'avessero regalato una
nuova vita. Mi sono messo a lavorare come consulente internazionale. E
quando il 30 marzo 2009 ho visto in diretta tv il presidente Barack
Obama che nel Rose Garden della Casa Bianca insediava Sergio Marchionne
al vertice della Chrysler, mi sono detto: compro! Ho deciso di
scommettere sull'avventura americana del Lingotto, investendo in
titoli Fiat ed Exor e pubblicando un libro. Il mio banale tenore di
vita, fatto di lettura, scrittura e lavoro, mi consente di non essere
ricattabile neppure da me stesso. Invece troppi manager s'impongono un
train de vie che non possono permettersi e finiscono per essere
ricattati da mogli, seconde mogli, figli, amanti».
Che cosa rappresenta la Fiat per l'Italia?
«Oggi molto poco.Ha perso l'auradi sacralità che la circondava. La Fiat era l'Arma dei carabinieri senza la divisa».
Perché la maggioranza degli italiani ha sempre perdonato a Gianni
Agnelli ciò che non perdona a Silvio Berlusconi, a cominciare dalla
ricchezza?
«Non è che gli
perdonassero i suoi difetti. Semplicemente non li conoscevano, perché la
stampa mai avrebbe osato intromettersi nella sua vita privata. Dicono
che François Mitterrand avesse sette amanti e una figlia naturale,
Mazarine, della cui esistenza i francesi seppero soltanto dopo che il
presidente francese era morto. John Fitzgerald Kennedy, Mitterrand,
Agnelli si comportavano a casa propria come Berlusconi e come tutti i
potenti, però, a differenza del Cavaliere, godevano della compiacenza
dei giornali. Ho sempre avuto un'altissima considerazione dell'ufficio
stampa Fiat».
Se Giovannino Agnelli,
il figlio di Umberto, non fosse morto prematuramente, pensa che le
sorti della Fiat sarebbero state diverse?
«Detto in tutta onestà, no. Avrebbe scontato anche lui il grande errore
strategico commesso alla fine degli anni Ottanta, quando non si fece
l'accordo con la Ford, e non solo per colpa di Enrico Cuccia, patron di
Mediobanca, e venne cacciato l'amministratore delegato Vittorio
Ghidella che lo caldeggiava. Il declino inarrestabile dell'auto è
cominciato da lì».
Per
quale motivo sul nuovo accordo siglato da Cisl e Uil, ma non dalla
Cgil, è stata combattuta una mezza guerra di religione?
«Non l'ho capito. Non intacca i diritti fondamentali: basta la legge a
difendere quelli. L'intesa di Mirafiori comprende due parti. Il
preambolo è stato scritto in sindacalese da qualcuno che deve aver
frequentato la scuola quadri del Pci alle Frattocchie.
La polpa è negli allegati, specialmente il numero 7 sul sistema Ergo
Uas, che rivaluta la figura del cronometrista, quello che ai miei
tempi chiamavamo "cronu", il kapò dell'officina 5. In sostanza definisce
la durata di ogni operazione. Ma anche qui niente di nuovo sotto il
sole: ci si avvale del metodo Toyota sull'ergonomia, che riduce al
minimo i movimenti del busto, cosicché l'operaio si stanchi di meno e
produca di più. Negli Usa si lavora in quel modo ed è pacifico che a
Marchionne non sarebbero state perdonate difformità fra Chrysler e Fiat».
Lo scarto di voti a favore dell'accordo è risultato minimo: appena 410.
«Nei referendum si vince e si perde per un voto ».
La sua vita da operaio com'era?
«Normale. Entravo in fabbrica alle 8 e uscivo alle 18. Nove ore di
turno, con un'ora di pausa per il pranzo. Si lavorava anche il
sabato, fino alle 13. T'infilavi la tuta e il caposquadra ti assegnava
le mansioni. Nessuna nevrosi. Gli unici momenti di frizione si
registravano in mensa: noi tifosi del Toro non volevamo juventini al
nostro tavolo».
Luigi Arisio, il
caporeparto che guidò la marcia dei 40.000, mi ha raccontato che alle
catene di montaggio della carrozzeria di Rivalta molti operai
giocavano a dama utilizzando come pedine le rosette cadmiate e i dadi esagonali oppure friggevano scampi e calamaretti su fornellini elettrici costruiti con materiale della Fiat in orario di lavoro.
«Sta
parlando della Fiat infiltrata dalle Brigate rosse. Negli anni
Cinquanta vigeva una disciplina ferrea. Non si scherzava».
Ma a che servono straordinari e turni flessibili previsti dal nuovo
accordo se l'anno scorso le immatricolazioni sono calate del 17%
rispetto al 2009?
«Sono stato a cena
con un amico giapponese, grande manager automotive negli anni
Novanta.Mi ha detto: "Riccardo,che fortuna abbiamo avuto! Siamo vissuti
in un'epoca in cui le auto dovevamo solo produrle. I clienti le
compravano, non chiedevano sconti, anzi davano forti anticipi per averle
sei mesi dopo. Ora invece il problema non è più produrle, ma
venderle. Sono stupefatto di come vi concentriate ancora sui
movimenti degli arti dell'operaio anziché sul cervello degli uomini
della progettazione e del marketing, sulla qualità della rete
commerciale, sull'effettivo valore dei supermanager"».
Marchionne pensa di arrivare a 6 milioni di vetture l'anno fra Usa e
Italia, quasi il doppio degli attuali volumi di produzione di Fiat e
Chrysler. Secondo molti osservatori è un bluff.
«Per un investitore come me Marchionne è un mito, almeno fino a che il valore dei titoli cresce».
Il Fatto Quotidiano
ha
scritto che «nel bel mezzo della battaglia di Mirafiori, tra un viaggio
in America e una dichiarazione alla stampa, Sergio Marchionne ha
trovato il modo di farsi un regalo di Natale. Un regalo in azioni che
vale quasi 300.000 euro. Azioni Fiat? No, Philip Morris». Quindi
Ruggeri investe nella Fiat, Marchionne no. Strano.
«Ma lui è un fumatore accanito. Scherzi a parte, anche Cesare Romiti
ha sempre sostenuto di non aver mai investito nella Fiat, né da
amministratore delegato né da presidente. Neppure io lo facevo, quando
ci lavoravo».
Secondo il sito Dagospia
«non è la Fiat che va a Detroit, ma è la Chrysler che si mangerà la
Fiat, facendo diventare Torino simile a Detroit, dove regna
l'automobile e il numero dei barboni è superiore a quello degli operai».
«Se
nei forzieri della casa automobilistica americana ci sono 8 miliardi di
dollari e Obama ha detto che non si possono portare via dagli Usa, è probabile un'incorporazione della Fiat in Chrysler. Ma si tratta di un fatto tecnico, non qualitativo».
Roberto D'Agostino l'ha ribattezzato Marpionne. E tale Bankomat sul
sito non ci è andato leggero: «Marchionne farebbe meglio a darsi meno
arie e comprarsi una giacca. E meditare su qualche numero, anziché far
meditare noi sui suoi modelli socio- culturali. Un milione e mezzo di
auto prodotte in Francia nei primi nove mesi del 2010. In Germania
4,1 milioni circa, oltre 930.000 in Gran Bretagna e 1,4 milioni in
Spagna. Solo 444.000 in Italia. Parliamo di fior di Paesi europei che,
in un anno certo non di grande boom, hanno prodotto in casa loro
un'enorme quantità di auto, con leggi civili e costi europei ».
«Marchionne una risposta l'ha data: "Non lancio sul mercato nuovi
modelli fintantoché perdura la crisi economica". Gli si può credere o
no. Ma io i giudizi sui manager sono abituato a darli solo a
posteriori ».
Sia sincero: l'economia come sta andando?
«Male. Non mi bevo i discorsi di Obama, suggeritigli da banchieri a
lui adiacenti mentre è costretto a piatire l'aiuto dei cinesi. Non si
può comprendere la crisi se non si studia il Quattrocento italiano e
la storia dei Medici. Cosimo il Vecchio capì che per diventare un
grande banchiere non v'è nulla di meglio che
operare di nascosto, corrompere gli intelletti, giocare di rimessa.
Questa intuizione ne implica un'altra: l'economia si muove per
bolle successive.
Il cinico deve sfruttare la fase di creazione
della bolla e trarre benefici dai disastri conseguenti al suo
scoppio. Dopo Cosimo, il primo banchiere degno di tale nome fu John
Law, un assassino e un giocatore d'azzardo. Si rivelò il più grande
genio finanziario dell'epoca,fino a raggiungere il ruolo di controllore
generale delle finanze di Luigi XIV, il Re Sole. Fu lui a inventare
nel 1717 la prima bolla finanziaria, quella della Compagnia del
Mississippi. Per capire che cosa significò per i risparmiatori,
basta consultare le tavole allegoriche alla History New Orleans
collection: ritraggono investitori impazziti, nudi dalla cintola in
giù, che a Parigi invadono le strade adiacenti a rue Saint-Denis e rue
SaintMartin, dov'era ubicata la sede
centrale; mangiano monete d'oro e defecano azioni della Compagnia del
Mississippi. Non è che da allora sia cambiato molto».
Mi dipinge proprio un bel quadretto.
«Siamo
in balia di un establishment euroamericano guidato da mediocri. Ai
vertici di istituzioni e imprese siedono politici, funzionari e
manager fatti con lo stampino. Inutile combatterli: quelli che vengono
dopo sono uguali, se non peggiori. Studiano tutti nelle stesse
università, parlano tutti perfettamente l'inglese, hanno tutti
frequentato un master, sono tutti telegenici, rilasciano tutti
altisonanti interviste. Ma è solo fuffa: nelle loro aziende le cose
vanno male. Perché i cinesi avanzano? Perché fanno quello che facevamo
noi negli anni Cinquanta: lavorano di più, consumano di meno e
investono. Noi invece consumiamo di più, lavoriamo di meno e non
investiamo. Ergo, ci stiamo mangiando il patrimonio. Conosco un solo
modo per fare sviluppo: si prendono dei materiali grezzi e ci si
mette dentro il lavoro per ricavarne prodotti finiti. È questo il valore
aggiunto. L'Occidente invece ha pensato di arricchirsi all'infinito
sulle commissioni bancarie. Lei sa che cos'è l'Ice Trust?».
Mi coglie impreparato.
«È
un club di New York formato da appena nove persone. Rappresentano le
grandi banche d'affari. Si riuniscono il terzo mercoledì di ogni mese,
in luoghi diversi, comunque sempre nel distretto finanziario di
Manhattan. Secondo il ministero della Giustizia americano,
gestiscono il mercato mondiale dei derivati con "metodi non pubblici",
per dirla nel linguaggio esoterico degli obamiani».
Il mercato mondiale dei titoli spazzatura.
«Titoli che possono diventare spazzatura, sì. I derivati ammontano a
300 trilioni di dollari. Un trilione equivale a 1.000 miliardi di
dollari. Questi nove signori non sono dei Re Mida, bensì intermediari
che gestiscono masse di denaro altrui applicando però con spietatezza
regole loro. È la setta, neppure tanto segreta, che governa il mondo,
anche se lascia il potere formale agli Obama, alle Merkel, ai Cameron e
ai Sarkozy».
Oggi lei tiene una rubrica fissa su Italia Oggi e scrive libri con titoli da confessore
d'anime, tipo La seduzione del potere .
«Il
potere è la droga delle aziende. Io ammiro i grandi uomini di potere
quando si pongono al di sopra dei fatti contingenti. Prenda Winston
Churchill o Charles de Gaulle: volevano che
il loro mondo andasse in una certa direzione e ce l'hanno fatto andare.
Non gl'interessava nulla del denaro. Vittorio Valletta in Fiat aveva
un compenso equo, lasciò tutto in eredità al centro per la cura dei
tumori intitolato alla sua unica figlia, Fede, morta di cancro nel
1957. Finché non vi sono entrato, credevo che le segrete stanze del
potere fossero santuari in cui si concepivano grandi disegni
strategici. Invece ho scoperto che non vi accadeva nulla di diverso
da ciò che si vede negli uffici: capaci e incapaci, onesti e ruffiani,
intelligenti e cretini. La varia umanità».
Mi sta dicendo che neppure i potenti sono attrezzati a prevedere dove andremo a finire?
«È così, basta ascoltare le parole oscene che pronunciano, tipo exit strategy ,
intesa come via d'uscita da ciò che non ci piace. Un'espressione
sconvolgente, che toglie qualsiasi speranza ai giovani. Non mi
prenda per un guru. Sono un uomo comune, un operaio di successo, un
nonnoche si preoccupa dell'avvenire dei
suoi nipoti. Ho accettato di vivere negli interstizi di questo sistema
che intellettualmente disprezzo ma che permette una grande libertà.
Per fortuna le portinerie di Torino pullulano ancora di tanti Ruggeri
che studiano per avere un domani. Sono gli immigrati.
(529. Continua)
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