Giudice fannullone per cinque anni Assolto: "La moglie l'ha lasciato..."

Il tribunale di Brescia ha assolto un collega milanese che per cinque anni non ha trattato neanche una pratica. Lui: "Sto male, mia moglie mi ha lasciato"

Giudice fannullone per cinque anni 
Assolto: "La moglie l'ha lasciato..."

Milano - Non stava bene, il giudice. E non da ieri. A dire il vero, erano anni che aveva la testa altrove. Cinque anni. Così preso dai suoi problemi familiari, il magistrato, da accumulare fascicoli sulla sua scrivania. Un monte di carte. Però non s’è arreso. O meglio, non ha mollato la presa. Quell’ufficio l’ha tenuto occupato, pur facendo poco o nulla di quanto gli veniva richiesto. E anche se a mezzo servizio (e forse anche meno), ogni mese è passato all’incasso. Stipendio e anzianità di servizio. Insomma, quel che si dice una carriera. Finché il giocattolo si è rotto. Finché, cioè, qualcuno non ha presentato un esposto al Csm e una denuncia penale. Così il magistrato è stato rinviato a giudizio dal gip di Brescia con l’accusa di omissione in atti d’ufficio. Con il pubblico ministero che ne ha chiesto la condanna a 4 mesi. E con l’imputato che ha ammesso che era vero, aveva accumulato ritardi, ma il fatto è che la moglie l’aveva lasciato e per questo non riusciva più a lavorare. E per dire quanto stava male, ha spiegato che il problema non riguardava solo il caso per cui si trovava a processo, ma qualcosa come 300 (trecento!) fascicoli. E com’è andata a finire? Assolto nel giro di una mattinata. Per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè, mica colpa sua. È che da quando la consorte l’ha mollato non ce l’ha più fatta.

La storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice della sesta sezione civile del Tribunale di Milano, parte da lontano. E inizia, più o meno, dieci anni fa. Quando sulla sua scrivania finisce una causa di separazione come ce n’è a migliaia nel Palazzaccio del capoluogo lombardo. Una pratica banale. Il magistrato era chiamato a stabilire - sulla base di una perizia - il valore di alcuni beni attribuiti da una precedente sentenza a un marito, ma che la moglie aveva fatto sparire. In altre parole, l’uomo - non potendo mettere le mani su quei beni - chiedeva di poterne almeno monetizzare il prezzo. Nel 2001, inizia la causa per l’accertamento del valore. Nel 2003, viene depositata la perizia (che fissa la cifra di 230mila euro). Poi, il buio. Codice alla mano, il giudice avrebbe avuto 30 giorni di tempo per firmare la sua ordinanza. Ma siccome siamo in Italia, come spesso accade quei trenta giorni vengono dilatati dal processo civile. Due mesi. Tre mesi. Sei mesi. Un anno. Due. Niente. La sentenza non arriva. L’avvocato che segue la causa tra marito e moglie cerca di sollecitare la pratica, ma dall’ufficio del giudice nessuna risposta. I colleghi del magistrato allargano le braccia, ammettendo di essere a conoscenza del problema ma non sapendo come risolverlo. Fino a quando il legale non decide che la misura è colma, e nel 2008 - cioè, dopo cinque anni di inutile attesa - presenta un esposto al Consiglio superiore della magistratura (che avrebbe sospeso la toga dalle funzioni) e una denuncia penale. E così il giudice «lumaca» finisce a processo.

Quel che accade davanti al collegio della I sezione del tribunale di Brescia, però, ha il sapore del grottesco. La prima udienza, infatti, è anche l’ultima. Al pubblico ministero e all’avvocato di parte civile, che si attendevano un’udienza «filtro» per iniziare a discutere del caso, viene comunicato che la vicenda va affrontata senza perdere altro tempo, che si procede all’immediata discussione, che ci sarà la camera di consiglio e la sentenza. È il 18 marzo scorso. Il giudice-imputato spiega al collegio che la ragioni di quel ritardo erano dovute al suo stato di prostrazione psichica (e a riprova porta due perizie), e che le sue difficoltà l’avevano portato a trascurare qualcosa come 300 fascicoli che gli erano stati affidati. Non esattamente un’attenuante. Avrebbe potuto prendersi un periodo di malattia, un’aspettativa, ammettere di non essere in grado di fare fronte al carico di lavoro e passare la mano a qualche collega. Avrebbe potuto - extrema ratio - persino dimettersi. E invece no. Ha accumulato ritardi su ritardi. E pace a chi chiede alla giustizia di essere - se non rapida - almeno decente. Il Tribunale, però, l’ha assolto per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè non c’è il dolo, e - soprattutto - l’imputato era afflitto da una condizione che gli impediva sì di assolvere le sue funzioni, ma non di vedersi accreditato lo stipendio ogni mese, per dodici mesi, nei cinque anni in cui non ha fatto nulla.

Ma se non poteva lavorare, per quale ragione non l’ha responsabilmente ammesso prima di mettere un’altra zavorra al sistema? Tant’è, assolto. Subito. Nel giro di una mattinata. [/TESTO]In due ore. E poi si dice che non esiste il processo breve.

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