Durante l'intervista arriva un fornitore, porta delle piante per la casa di Ilaria a Perugia: stare al telefono con due persone in contemporanea, parlare con il portinaio, rispondere agli sms che si rovesciano senza sosta nel suo telefonino e naturalmente ottenere che le piante siano consegnate e sistemate. Il tutto mentre pensa alla migliore risposta possibile. Oggi si chiama multitasking, un tempo semplicemente capacità organizzativa. E Ilaria Borletti ne è l'incarnazione. La voce, lo sguardo, i modi, la riservatezza sono quelli di una donna che appartiene ancora, se non per età di certo per mentalità, energia e origini, a quella schiera di imprenditori che dal dopoguerra in poi hanno costruito Milano e l'Italia.
Quanto conta l'esser nata milanese nel nutrire questa sua voglia di fare?
«La milanesità influisce profondamente sulle mie scelte e sulla mia attività. I miei erano il prototipo dello spirito milanese che si interessa alla sua città in un rapporto fattivo, di quella borghesia che ha regalato a Milano la Bocconi, ha ricostruito la Scala, ha donato infinite strutture sanitarie».
Che rapporto ha oggi con Milano?
«Ci vivo per un quarto del mio tempo, ma ho conservato l'affetto per la città che è dovuto dalle famiglie che ne hanno fatto la storia. Ho casa in una delle cinque vie manzoniane e quando torno in città basta una passeggiata per rivedere i luoghi che amo di più: Sant'Ambrogio, la Rinascente fondata da mio nonno, piazza Borromeo, via Santa Marta. Mi tengo alla larga da via Manzoni e Montenapoleone, invece, invase da suv e negozi folli: manca la tipica discrezione milanese, sostituita da volgarità e ostentazione».
E il resto del suo tempo dove lo trascorre?
«Curo le mie attività imprenditoriali in Inghilterra, dove possiedo società che investono in high-tech negli Stati Uniti. E poi mi dedico alle fondazioni e associazioni non-profit in cui ho incarichi gestionali e istituzionali, come Amref, il Summit della Solidarietà e il Borletti-Buitoni Trust, che ho fondato insieme a mio marito e che si occupa di promuovere giovani concertisti di musica da camera nelle migliori istituzioni del mondo».
Se si parla di musica classica, un milanese pensa subito alla Scala: ricorda la sua prima volta?
«Non potrei mai dimenticare la mia prima serata alla Scala. Fu con mio padre, nel palco di famiglia, una Madame Butterfly. Lui, come da copione, si commosse al secondo atto. Io rimasi affascinata dalle luci e dall'atmosfera magica».
Oggi le Prime sono come allora?
«Questo nuovo sovrintendente fa molto per vivacizzare la programmazione. Ma eleganza e misura milanese ormai si sono perse. E non credo che oggi, di fronte ad una Scala distrutta dalle bombe, accadrebbe di nuovo il miracolo compiuto da mio nonno e da una manciata di imprenditori, che di comune accordo, intorno ad un tavolo, firmarono un assegno per la ricostruzione».
E della Rinascente, il grande magazzino di famiglia, ha qualche ricordo di bimba?
«Nei primi anni Sessanta andavo a trovare mio padre nel suo ufficio affacciato sul Duomo. Ricordo quando mi tirava dietro per il magazzino per stringere le mani ai dipendenti. Un'atmosfera che oggi chiameremmo paternalistica, ma che a me sembrava familiare e solidale».
Quanto c'è di Borletti ancora in Rinascente?
«I miei cugini fanno parte della cordata che ha rilevato il magazzino un anno fa».
Quando si è innamorata del non-profit?
«Trent'anni fa, in Africa. Per quindici anni, un mese all'anno, andavo in Kenya, in un ospedale del nord. Lì ho imparato a restituire i privilegi, a condividere la fortuna delle mie origini. E lì ho capito che le mie qualità sono soprattutto organizzative».
L'incontro più bello?
«Quello con i missionari che nel totale anonimato, nel silenzio e con un grande eroismo dedicano la loro vita al miglioramento delle condizioni di vita altrui».
L'ostacolo più grande?
«La stupidità della burocrazia, gli inghippi inutili, la difficoltà a fidelizzare i donatori.
Quanto ha contato portare un nome come Borletti nel potersi occupare di non-profit?
«Ha giocato enormemente. Se non altro nel togliermi del tutto la timidezza di chiedere fondi ai finanziatori».
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