In una fase storica tragica in cui gli italiani si impoveriscono sempre di più, con 6,2 milioni che fanno letteralmente la fame, 12 milioni in stato di povertà, un milione di famiglie senza reddito e 4,2 milioni di famiglie che non arrivano a fine mese, sarebbe stato un gesto straordinario, forse doveroso, che la prima visita di Papa Francesco fuori Roma fosse riservata alla sofferenza degli italiani.
Immagino il messaggio dirompente qualora il Papa avesse scelto di condividere il pasto frugale a cui sono costretti sempre più italiani, unitamente agli immigrati, recandosi in visita a una delle innumerevoli mense dei poveri disseminate in tutt'Italia gestite dalla Caritas, dal Sant'Egidio o dall'Opera Francescana, ciò che avrebbe avuto anche il significato di un attestato di riconoscimento dell'attività meritoria di queste istituzioni ecclesiali. O probabilmente sarebbe stata ancor più congeniale alla sua storia di pellegrino tra i poveri e in armonia con la sua predicazione a favore di una Chiesa povera, recarsi in uno dei purtroppo tantissimi quartieri degradati delle nostre metropoli, dove la povertà, la disoccupazione, lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e la criminalità spiccia od organizzata li rendono indegni di una nazione civile al punto da sfuggire al controllo delle forze dell'ordine, come è il caso di Scampia a Napoli, lo Zen a Palermo ma anche Quarto Oggiaro a Milano o Porta Palazzo a Torino.
Sarebbe stato un gesto inedito e clamoroso, ancor più significativo della lavanda dei piedi nel carcere minorile, un gesto che avrebbe accreditato senza alcun dubbio Papa Francesco, che preferisce qualificarsi come «vescovo di Roma», come il «vescovo di tutti gli italiani», in un momento particolarmente critico in cui la maggioranza dei cittadini si sente del tutto abbandonata e tradita da uno Stato che impone il più alto livello di tassazione al mondo, fagocita per salvaguardare i propri privilegi più della metà del Pil (Prodotto interno lordo), condanna a morte le imprese paradossalmente virtuose e creditrici, riduce in uno stato di prostrazione le famiglie e uccide la speranza in un futuro dignitoso ai giovani.
Invece Papa Francesco ha scelto di recarsi a Lampedusa nel luogo simbolo dove sbarcano i clandestini più fortunati e muoiono in mare coloro che colano a picco con le carrette del mare. Chiariamo subito che si tratta di clandestini e che il gesto del Papa è una esplicita, anche se non voluta, legittimazione della clandestinità. La clandestinità è un reato in qualsiasi Stato al mondo: chi tenta o riesce ad entrare illegalmente all'interno delle frontiere nazionali, commette il reato di clandestinità che, come tutti i reati, è sanzionato secondo la legge. Ebbene, si dà il caso che proprio in questa fase tragica in cui versano gli italiani, abbiamo il presidente della Camera Laura Boldrini e il ministro dell'Integrazione Cécile Kyenge che considerano la legalizzazione della clandestinità come l'apice della civiltà.
Vorrei sottolineare che la clandestinità è parte integrante del più colossale giro d'affari della criminalità organizzata, i cui proventi superano quelli del traffico degli stupefacenti. Diciamo senza giri di parole che i clandestini sono conniventi con gli infami sfruttatori delle condizioni di miseria e disperazione da cui fuggono, perché volontariamente pagano una cifra che si aggira sui 1.000 dollari per salire su un'imbarcazione fatiscente che consente loro di attraversare il Mediterraneo. Lampedusa è la meta prescelta perché in realtà è più a sud della punta più settentrionale della Tunisia, potremmo dire che geograficamente è più Africa che Europa. Pertanto i clandestini consapevolmente e concretamente commettono un reato condividendo con i loschi trafficanti di esseri umani la flagrante violazione della legge che è tale ovunque nel mondo.
In Italia è in corso un'iniziativa politica e mediatica (attraverso la «Carta di Roma» promossa dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa italiana) per legittimare la clandestinità arrivando al punto da mettere al bando dal nostro vocabolario la stessa parola «clandestino». Si tratta di una strategia che mira all'annullamento del concetto di «nazione italiana», che ha una sua identità e una sua civiltà, per sostituirlo con la tesi ideologica di un unico mondo globalizzato, con una unica società meticcia, gestito dal multiculturalismo che esclude un unico collante valoriale e identitario, dove l'umanità finalmente affrancata da qualsiasi radicamento territoriale attribuisce ai singoli il diritto inalienabile di risiedere in qualsiasi parte del mondo a seconda della sua autonoma e insindacabile decisione. A noi italiani non spetterà che accogliere incondizionatamente tutti coloro che si presentano alle nostre frontiere aderendo all'ideologia dell'immigrazionismo secondo cui gli immigrati sono buoni a prescindere dalle conseguenze della loro presenza nel nostro vissuto e nella nostra quotidianità.
L'accoglienza del prossimo io la concepisco conformemente all'esortazione evangelica «ama il prossimo tuo così come ami te stesso». Quel «così come ami te stesso» è ciò che i relativisti, i buonisti, i globalisti e gli immigrazionisti vorrebbero toglierci, obbligandoci a rispettare solo la prima parte «ama il prossimo tuo». Però non è umanamente possibile amare il prossimo trascurando se stessi, o addirittura essendo costretti a disprezzare o persino odiare se stessi, pena il proprio suicidio. Mi auguro di cuore che Papa Francesco non si spinga al punto di qualificarsi «clandestino tra i clandestini», legittimando una condizione di illegalità.
Non è giusto da nessun punto di vista che gli italiani che oggi soffrono si trovino costretti ad anteporre le ragioni dei clandestini alla loro legittima rivendicazione di essere pienamente se stessi a casa loro.twitter@magdicristiano
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