Milano - Non è un grande passo avanti per l’inchiesta sulla Lega Nord, quello che si compie ieri in una stanza della caserma della Guardia di finanza. Anzi. Per la prima volta, va a sedersi davanti agli inquirenti milanesi l’imputato numero uno, l’ex cassiere del Carroccio Francesco Belsito, il personaggio sul cui nome l’indagine milanese ha intersecato quelle di Napoli e Reggio Calabria. Belsito sotto l’avanzare delle tre procure ha ripiegato in buon ordine, si è dimesso dalla carica ed è stato espulso dal partito senza dire bah: come se anche questo guaio facesse parte dei rischi potenziali che si era assunto accettando la nomina a tesoriere.
Ieri, davanti ai pm milanesi, Belsito dice in sostanza una cosa sola: «Ho agito negli interessi della Lega». Apparentemente sembra quasi una chiamata in correità, una conferma a verbale di quel «Bossi sapeva tutto» che spunta già in intercettazioni e in altri verbali. Ma nella sostanza, la linea sposata da Belsito rischia di fare comodo alla Lega. Perché se le operazioni realizzate (o tentate, o anche semplicemente ipotizzate) da Belsito con i soldi versati alla Lega dallo Stato - prima tra tutte, i sei milioni da investire tra Cipro e la Tanzania - sono state fatte davvero per il Carroccio, allora si disinnesca una parte importante dell’indagine, perché può cadere il reato di appropriazione indebita contestata a Belsito.
Ne beneficerebbe lui, l’ex cassiere; ma cambierebbe in meglio lo scenario anche per la Lega, che vedrebbe afflosciarsi l’indagine che ha portato la Guardia di finanza a violare la sede di via Bellerio.
Ma questi sono effetti che si faranno sentire più in là. Per il momento, la Procura si accontenta di un faccia a faccia piuttosto rapido (due ore e mezza, compresi saluti e adempimenti burocratici) riassunto in un verbale di cui i difensori di Belsito chiedono e ottengono la secretazione: non tanto perché contenga rivelazioni esplosive, quanto per non essere sospettabili se il verbale dovesse arrivare ai giornali. Gli stessi documenti che i legali dell’ex cassiere consegnano ai pm vengono liquidati come «poco interessanti». I tre magistrati (il capo del pool Alfredo Robledo e i pm Filippini e Pellicano) lasciano Belsito con l’accordo di riconvocarlo appena possibile, quando l’esame dei documenti consegnati ieri renderà necessarie nuove domande e ulteriori spiegazioni.
«Se ho sbagliato pagherò», dice Belsito al terzetto di inquirenti, e anche questo contribuisce a alimentare il ruolo vagamente sacrificale che l’ex tesoriere intende assumere. Certo, insieme agli investimenti in Tanzania ci sono da spiegare anche movimenti di cassa più modesti ma in direzioni più ostiche da giustificare: le cure dentali dei parenti di Bossi, le auto, i diplomi, insomma le spese personali fatte con soldi del partito. Sono una sorta di fringe benefit legati alla carica di Bossi e dei suoi colonnelli? Potrebbe essere questa l’interpretazione giuridica che si preparano a darne gli avvocati dei leghisti sotto tiro.
Di certo, negli affari fatti da Belsito per conto della Lega non pare ci siano i diamanti: il gruzzolo di pietre preziose che Belsito aveva disciplinatamente consegnato in via Bellerio nei giorni scorsi è stato disconosciuto dai nuovi leader del movimento. Anche il senatore Stiffoni ha sostenuto che si trattava di un acquisto fatto senza che la Lega c’entrasse. E la Procura a quel punto ha ritenuto doveroso mandare la Finanza a sequestrare i diamanti.
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