Berlusconi racconta le sue notti

L’ex premier ricostruisce l’intera vicenda Ruby: "È risibile l'ipotesi che volessi mantenere il segreto sullo svolgimento delle serate"

Berlusconi racconta le sue notti

Come sapete questo processo si basa su due punti fondamentali: la mia te­lefonata della notte fra il 27 e il 28 mag­gio 2010 alla questura di Milano e i miei rapporti con Karima El Mahroug detta Ru­by. In realtà l’erroneo e pretestuoso filo condut­tore di entrambi i capi di imputazione è rappre­sentato dalle serate che si sono svolte nella mia casa di Arcore: secondo l’accusa avrei telefona­to in Questura per evitare che si conoscesse il contenuto di tali serate.

Cominciamo quindi dalle serate. Si è molto fa­voleggiato e ironizzato su queste serate, con evi­denti intenti diffamatori e con una intrusione nella vita privata di un cittadino che davvero non ha precedenti. Voi ascolterete i testimoni e comprenderete qual era davvero la realtà.
Le cene si svolgevano in una grande sala da pranzo, un grande tavolo accoglieva tutti gli ospiti insieme, io al centro della tavolata mono­polizzavo la conversazione parlando di politica, di sport, di cinema, di televisione, di gossip e mi divertivo confezionando battute e cantando, a ri­chiesta, le canzoni del mio repertorio giovanile e quelle scritte da me in collaborazione con Ma­riano Apicella. Apicella si esibiva col suo fantast­i­co repertorio di canzoni napoletane così come il maestro Danilo Mariani che suonava e cantava quasi sempre accompagnato dalla moglie, an­ch’essa cantante professionista. Di volta in volta intervenivano alle cene altri cantanti e strumen­tisti.
Dopo la cena alcune volte le mie ospiti orga­nizzavano nel teatro della residenza degli spetta­coli con musica e costumi, spettacoli che non avevano alcunché di volgare e scandaloso. E a proposito della dizione «Bunga Bunga», questa espressione nasce da una vecchia battuta che ho ripetuto più volte prima dei fatti contestati ed è stata riportata doviziosamente dalla stampa. Altre volte nella discoteca che era stata dei miei figli si ballava (io però non ho mai partecipato ad alcun ballo) e accadeva quello che si può vedere in qualsiasi locale aperto al pubblico di ogni età. Posso quindi esclude­re con assoluta tranquillità che si sia­no mai svolte scene di tipo sessuale. Tutto tra l’altro avveniva alla presen­za di camerieri, musicisti, personale di sicurezza, ospiti di una sola serata e, a volte, con l’intervento di miei fi­gli, che venivano a salutarmi.

È quindi evidente che non avevo al­cun interesse a chiedere alla Questu­ra comportamenti diversi da quelli previsti dalla legge. Di tanto che non ho svolto mai alcuna pressione nei confronti del funzionario della Que­stura che ho avuto al telefono, al qua­le come da lui stesso affermato, mi so­no limitato a dare e a chiedere una semplice informazione.

Ma al di là dei dati oggettivi proces­suali vi è un­a considerazione prelimi­nare che è assorbente. Ipotizzare che volessi mantenere segreto lo svolgi­mento di quelle serate è palesemen­te risibile. Basta leggere i giornali an­tecedenti al 27 maggio 2010 per com­prendere come la mia vita privata sia sempre stata oggetto di una spasmo­dica e quasi maniacale attenzione mediatica. Già tutto si era letto delle mie serate a Roma, delle cene a Villa Certosa in Sardegna e nelle mie altre residenze, Arcore compresa, con pubblicazione addirittura di libri, con l’illegittima pubblicazione di in­tercettazioni ambientali, di intercet­tazioni telefoniche, di reportage foto­grafici sottratti alla mia privacy. Vo­glio anche ricordare che di fronte ai cancelli di tutte le mie residenze sta­zionavano permanentemente, oltre al presidio dei carabinieri, frotte di fo­tografi e cameramen, giorno e notte. Su queste cene dunque, sulle mie fre­quentazioni, sui miei ospiti, si è parla­to, scritto e disquisito largamente.
Tutto ciò era già accaduto nel perio­do anteriore al 27 maggio 2010, perio­do durante il quale ho ricevuto, nella massima trasparenza e senza alcuna segretezza ospiti nelle mie residenze. Parimenti nel periodo successivo e an­che dopo che era emerso sui giornali il cosiddetto «caso Ruby», io ho conti­nuato a condurre come al solito la mia vita di relazione. Tanto ero tranquillo del contenuto di queste serate che mai ho disposto controlli o perquisi­zioni sui miei ospiti. Mai ho chiesto ai miei ospiti di consegnare i telefonini per evitare registrazioni o fotografie, perché nulla di men che lecito o di irri­feribile poteva accadere. Mai ho chie­sto ai miei ospiti di tenere riservati gli
accadimenti delle serate perché non c’era nulla che potesse preoccuparmi e le stesse serate costituivano soltanto dei momenti di svago conviviale do­po intere di settimane di lavoro.

Ecco perché è fuori da ogni logica e da ogni ragionevolezza collegare la mia telefonata del 27 maggio in Que­stura al timore che Ruby potesse rac­contare qualcosa di segreto, o di scan­daloso su queste serate. E del resto se avessi avuto questa preoccupazione mi sarei attivato anche la settimana successiva al 27 maggio quando ebbi notizia che Ruby stesse ancora per es­sere affidata a una comunità-fami­glia di Genova.
Voglio innanzitutto ricordare, nei limiti del possibile, come ho cono­sciuto Karima El Mahroug cioè Ruby.

Qualche mese prima dei fatti accadu­ti il 27 maggio Ruby era intervenuta a una cena presso la mia residenza in Arcore. Non ricordo con chi venne questa prima volta, forse con Lele Mo­ra. È da tener presente che proprio perché durante queste serate amica­li non avevo nulla da nascondere, ac­cadeva spesso che i miei ospiti si fa­cessero accompagnare da qualche amico o amica con un semplice pre­avviso telefonico alla mia segreteria. In quell’occasione Ruby attirò su di sé l’interesse e l’attenzione di tutti i commensali raccontando la sua sto­ria. Ci disse di essere di nazionalità egiziana,figlia di una famosa cantan­te anch’essa egiziana appartenente a una importante famiglia imparenta­ta col presidente Mubarak. Ci fece ve­dere un video con questa cantante che effettivamente aveva qualche so­miglianza con lei. Tali circostanze Ru­by le ribadì sempre anche nelle sera­te successive.

Ci raccontò di essere stata buttata fuori casa dal padre che l’aveva an­che picchiata, ci fece vedere una va­sta cicatrice sulla testa procuratale dal padre con un getto di olio bollen­te, il tutto, ci disse, a causa della sua decisione di convertirsi alla religione cattolica. Ci narrò di molte sue tristi peripezie e infine ci raccontò di esse­re arrivata a Milano un mese prima e di essere stata ospitata da un’amica.
Una sera questa amica, dopo un liti­gio, le fece trovare la porta chiusa con le sue valigie fuori dalla porta. Ci rac­contò di essere uscita sulla strada e di essere rimasta seduta a piangere sul­le
sue valigie sotto la pioggia, per tre ore, essendo senza un soldo e non sa­pendo che fare. Finalmente un taxi si fermò, il conducente ne discese e le chiese se avesse bisogno di aiuto. Lei piangendo gli raccontò di non sape­re dove andare a dormire e di essere senza soldi. Lui si commosse e la por­tò a casa sua, comportandosi da vero gentiluomo. Nei giorni seguenti le trovò un lavoro da cameriera nel ri­storante di un suo conoscente.

Lei iniziò a lavorare in questo risto­rante, ma il proprietario non le dava pace, la tormentava e voleva avere rapporti intimi con lei. Questa era la storia che lei ci rappresentò piangen­do e facendo commuovere molti tra i miei ospiti. Le offrii subito un aiuto economico per il suo sostentamento e per cercarsi una casa in locazione e le assicurai di poter contare sul mio interessamento e sul mio aiuto. Fece conoscenza con alcune delle mie ospiti e in seguito intervenne con lo­ro ad altre cene a casa mia.
Durante una di queste occasioni mi raccontò di avere l’opportunitàdi entrare come socia in un «centro este­tico » di una sua amica, in via della Spi­ga a Milano. Mi mostrò un lungo elen­co di laser e di altre apparecchiature che le avrebbero consentito di diven­tare socia della sua amica al 50%. Il co­sto di quelle apparecchiature era di 57mila euro. Mi chiese se potevo far­le un prestito assicurandomi che con gli utili della sua attività mi avrebbe reso l’intera somma. Io la inviai dal mio amministratore che le consegnò quanto richiesto. Lo feci convinto che questo fosse proprio il mezzo per consentirle una vita decorosa senza dover subire accadimenti quali quel­li da lei narrati.
Proprio il contrario di quello di cui vengo paradossalmente accusato. Desidero anche ricordare che tutti avevamo l’assoluto convincimento che Ruby fosse maggiorenne, sia per­ché lei aveva detto a tutti di avere 24 anni, sia per il suo modo di esprimer­si proprio di una ragazza matura, sia per il suo aspetto fisico che non corri­spondeva assolutamente a quello di una minorenne, sia perché mai avrei pensato che una minorenne potesse intraprendere una attività come quel­la che le avevo finanziato.
Inutile dire che non ho avuto alcun tipo di rapporto intimo con lei e che, durante la sua permanenza alle ce­ne, non vi sono mai stati accadimenti di natura men che lecita.

È anche per questo che qualsiasi ricostruzione te­sa a ipotizzare che successivamente avrei offerto del denaro a Ruby per­ché non raccontasse cosa fosse acca­duto durante quelle serate è palese­mente priva di fondamento.
Come risulta dagli atti, Ruby infatti aveva già reso amplissime dichiara­zioni di totale e pura fantasia, alcune delle quali certamente a me non favo­revoli, quantomeno sotto l’aspetto mediatico. Debbo quindi ritenere che quando Ruby in qualche conver­sazione telefonica aveva fatto riferi­mento a somme di denaro che pensa­va di poter ottenere da me si trattasse di sue fantasie prive di qualsiasi ag­gancio fattuale o verosimilmente di propositi che qualcuno potrebbe averle suggerito per ottenere dei van­taggi eco­nomici e magari per trattene­re per sé una parte di questi vantaggi. L’unico timore che io avrei quindi potuto avere in questa vicenda non è
già che Ruby raccontasse il vero, ma che Ruby o chi per lei si inventasse cose non vere, che sarebbero state certamente utilizzate contro di me.

Ripetendomi, posso conferma­re ancora una volta che mai ho avuto rapporti intimi di qualsiasi tipo con Ruby, della cui minore età comunque non ero assoluta­mente a conoscenza, essendo an­zi convinto che avesse 24 anni, co­sì come da lei stessa dichiarato. E ancora, che mai ho avuto preoc­cupazione alcuna che si potesse­ro inventare e narrare da parte dei miei ospiti degli accadimenti indecenti occorsi durante le sera­te che si svolgevano presso la mia abitazione.
Venendo ai fatti del 27 maggio 2010 cercherò nel limite dei miei ricordi, di offrirvi elementi utili per la ricostruzione dell’accadu­to anche se obiettivamente si trat­tava
di un episodio marginale ri­spetto alle mie molteplici incom­benze e attività da presidente del Consiglio.
Debbo ricordare innanzitutto che quel giorno, il 27 maggio ap­punto, presiedetti a Parigi una im­portante riunione dell’Ocse cui partecipavano oltre cinquanta Stati. Ero partito quella stessa mattina da Roma con l’onorevo­le Valentino Valentini, con i miei consiglieri diplomatici e con il personale addetto alla mia sicu­rezza. Nel corso della serata rice­vet­ti alcune chiamate riguardan­ti la vicenda oggetto di questo pro­cesso.

Il cellulare a cui pervenne­ro queste chiamate era in posses­so del mio capo scorta o del mio staff.
Dagli atti del processo ho poi ri­levato che il tele­fonino aveva rice­vuto una chiamata da tale Michel­le
Conceicao. Io non ricordo di aver mai parlato con questa Con­ceicao. Ricordo invece la telefo­nata della signora Miriam Loddo che mi comunicava che Ruby le aveva telefonato in lacrime per dirle che si trovava alla Questura di Milano dove era stata accom­pagnata e trattenuta perché accu­sata di un furto e trovata sprovvi­sta di documenti.
A questo punto è opportuno specificare la ragione per la qua­le quando l’onorevole Valentini, avendo ascoltato la telefonata con la Loddo, mi chiese se volevo che contattasse la Questura di Mi­lano, risposi affermativamente poiché ritenevo, oltre alla mia propensione ad aiutare una per­sona in difficoltà, che da quella circostanza sarebbero potute de­rivare delle implicazioni diplo­matiche
negative. Ma la vicenda va contestualiz­zata nel periodo in cui effettiva­mente accadde. Come immagi­no ricorderete, nella prima parte del 2010 era accaduto un grave in­cidente interna­zionale fra la Con­federazione Elvetica e la Libia, in­cidente che aveva attirato l’atten­zione di tutta la stampa occiden­tale. Uno dei figli di Gheddafi, Hannibal, a seguito di una denun­cia per violenze, era stato arresta­to in Svizzera. Il leader libico, per ritorsione, aveva congelato tutte le attività svizzere in Libia, aveva ritirato il visto a tutti i cittadini svizzeri e aveva trattenuto sul pro­prio territorio dei cittadini elveti­ci cui venne impedito di riparti­re.

Ebbene, il giorno 27 marzo 2010 si tenne a Sirte il vertice del­la Lega Araba a cui fui invitato co­me ospite d’onore. In quella cir­costanza, dopo una lunga trattati­va con Gheddafi, conseguii un ri­le­vante successo ottenendo la re­voca dei provvedimenti contro i cittadini svizzeri in tema di visti. Non ero riuscito invece a risolve­re il divieto di rientro in patria di due uomini di affari svizzeri.
Mi occupavo di queste situazio­ni p­erché la Confederazione Sviz­zera, al corrente dei miei rappor­ti con la Libia, mi aveva chiesto se potevo intervenire sul colonnel­lo Gheddafi al fine di ottenere la loro liberazione. Lo feci con diver­si interventi nei mesi successivi e, finalmente, il 13 giugno del 2010, sedici giorni dopo il 27­ maggio, riuscii a risolvere il problema di cui mi ero interessato quasi quotidianamente. Il 13 giugno 2010 infatti, si svolse a Tripoli un summit dell’Unione africana a cui parteciparono i vertici del­l’Unione europea e i leader di al­cuni Stati europei.

Gheddafi volle pranzare da so­lo con me in una sala riservata e durante il pranzo, nonostante le mie insistenze, mi confermò che l’ultimo uomo d’affari svizzero trattenuto in Libia, Max Goldi, sa­rebbe stato trattenuto ancora in Libia in seguito alla sua condan­na a quattro mesi di carcere. Alla fine del pranzo chiesi a Gheddafi quale sarebbe stato il menu per la cena. Mi guardò stupito e io gli co­municai che sarei rimasto in Li­bia suo ospite fino a quando non avesse rilasciato anche l’ultimo cittadino svizzero. Rise di questa mia insistenza, sembrò non pren­dere sul serio la mia minaccia e mi ricordò ancora che questo si­gnore doveva attendere il risulta­to del ricorso presso l’Alta Corte di appello. Io non mi detti per vin­to e continuai a confermargli che comunque sarei rimasto come suo ospite. Se ne andò scuotendo la testa ma ridendo.
Qualche ora più tardi mi fece comunicare dal suo segretario particolare che Max Goldi era sta­to messo su un aereo per la Svizze­ra perché, testuale, «la Libia non poteva permettersi il lusso di mantenere, oltre a lui, anche il presidente italiano».

Per inciso, quella stessa sera, portai a termine anche un’altra mediazione con Gheddafi, e ot­tenni il rilascio di tre pescherecci di Mazara del Vallo sequestrati qualche giorno prima dalle auto­rità libiche nelle loro acque terri­toriali.
L’incidente internazionale ori­ginato dall’arresto del figlio di Gheddafi mi aveva quindi occu­pato a lungo e quando mi fu co­municato
che Ruby, egiziana e parente di Mubarak, si trovava trattenuta in Questura, mi venne spontaneo paragonare questa circostanza proprio alla vicenda del figlio di Gheddafi e immagi­nai subito che tale situazione avrebbe potuto creare un inci­dente diplomatico con Mubarak essendo io convinto che Ruby fa­cesse parte della sua famiglia.
Infatti nel corso del vertice ita­lo- egiziano che si era tenuto otto giorni prima del 27 maggio, cioè il 19 maggio 2010, a Villa Mada­ma, durante il pranzo, terminata la parte ufficiale dei negoziati, avevo chiesto notizie di questa Ruby allo stesso presidente Mu­barak raccontandogli di come l’avevo conosciuta e della sua sto­ria convinto com’ero che fosse una sua parente.
Alla mia domanda se conosces­se la madre di Ruby la risposta fu affermativa e mi disse che si trat­tava di una famosa cantante che effettivamente faceva parte della sua cerchia famigliare ma che non era a conoscenza del fatto che avesse una figlia messa fuori casa per problemi di religione. L’argomento «Ruby» occupò la conversazione, di fronte ai molti commensali, per diverso tempo. Mubarak mi assicurò alla fine che si sarebbe informato e che mi avrebbe fatto sapere. Rimasi quindi nel convincimento che Ruby potesse avere davvero un le­game parentale con il presidente egiziano.

Per questo, quando l’onorevo­le Valentini la sera di otto giorni dopo, a Parigi, mi chiese se fosse il caso di assumere informazioni presso la Questura, gli risposi af­fermativamente. Come ho già ri­cordato, mi venne spontaneo pa­ragonare la circostanza del fatto che Ruby fosse trattenuta in Que­stura proprio con la vicenda di cui mi stavo occupando: quella del figlio di Gheddafi trattenuto in Questura dagli svizzeri. Imma­ginai subito che tale situazione avrebbe potuto creare un inci­dente diplomatico con Mubarak che avrebbe potuto dirmi: «Ma come, tu, presidente del Consi­glio italiano mi hai parlato di que­sta ragazza come di una mia pa­rente e permetti che questa mia parente sia oltraggiata in casa tua, nel tuo Paese?!».
Mubarak non era certo Ghed­dafi ma era pur sempre un auto­crate cui sarebbe stato difficile comprendere che un premier, che gli aveva egli stesso parlato di una ragazza descrivendola come sua parente, avesse potuto per­mettere uno sgarbo, un’offesa co­sì grande a un caro amico e colle­ga.
Tornando alla notte del 27 mag­gio parlai con Nicole Minetti, che già aveva saputo da un’amica di quanto stava accadendo a Ruby, e che quindi confermò quanto dettomi poco prima dalla Loddo. Poiché mi era stato riferito che si trattava anche di un problema di identificazione, essendo la ragaz­za sprovvista di documenti, riten­ni utile chiedere alla Minetti che aveva conosciuto bene Ruby da me di recarsi in Questura per age­volare tale identificazione.

La decisione quindi di contatta­re la questura, come ho già ricor­dato, fu suggerita dall’onorevole Valentini prima e poi dal capo scorta Ettore Estorelli, il quale dis­se che avrebbe potuto assumere informazioni tramite un funzio­nario con cui si rapportava per i nostri spostamenti. Io non sape­vo neppure chi fosse questo fun­zionario né che ruolo ricoprisse nella Questura di Milano, ma ero interessato a sapere se effettiva­mente vi fosse un problema per l’identificazione della ragazza.
La telefonata con questo fun­zionario, il dottor Ostuni, fu estre­mamente breve. Mi limitai a chie­dergli se poteva confermare o me­no che vi fossero problemi per l’identificazione di una giovane di nome Ruby di cittadinanza egi­ziana, e gli dissi che mi risultava che questa giovane potesse avere rapporti di parentela con il presi­dente Mubarak.
Dissi che per agevolare le ope­razioni di identificazione avevo chiesto al consigliere regionale Nicole Minetti che, ripeto, aveva personalmente conosciuto pres­so la mia residenza la stessa Ru­by, di recarsi presso la Questura. Mi sembrò una scelta logica, op­portuna e doverosa proprio per evitare, ripeto, un potenziale inci­dente diplomatico.
Non dissi altro e non chiesi in al­cun modo al dottor Ostuni di in­tervenire sulle procedure, né avrei potuto farlo perché non ero a conoscenza di cosa realmente stesse accadendo in Questura. Dopo queste telefonate decol­lammo da Parigi e quando atter­rammo a Roma, senza che vi fos­sero stati altri ulteriori contatti te­lefonici, Estorelli chiamò Ostuni che gli disse che era in corso l’identificazione della ragazza ma che la situazione era in via di risoluzione a questo punto io
non feci null’altro. Qualche tempo dopo Nicole Minetti, mi chiamò per mettermi al corrente della situazione in Questura. Mi raccontò che Ruby era stata identificata e che era ri­sultata non essere egiziana bensì di nazionalità marocchina e per di più minorenne. La notizia mi lasciò di stucco e mi resi final­mente conto che Ruby aveva mentito e si era costruita una se­conda diversa identità in sostitu­zione della sua condizione reale. Di conseguenza ritenni di non do­vermi più interessare di lei, ma quanto al possibile incidente di­plomatico, tirai un bel sospiro di sollievo.

Per concludere l’episodio la mia telefonata in Questura fu so­lo di natura conoscitiva tesa uni­camente a dare e a ottenere una informazione e la prova ne è che non ritenni di dover chiamare i re­sponsabili istituzionali e cioè né il questore né il prefetto, come sa­rebbe stato evidentemente age­vole e naturale per il presidente del Consiglio. Così come non ave­vo ritenuto di chiamare il nostro ministro degli Esteri o l’amba­sciatore egiziano prima di aver accertato quale fosse la situazio­ne. È ovvio che allertare i canali di­plomatici senz­a una previa verifi­ca avrebbe potuto creare di per sé un inutile incidente.
Debbo altresì ricordare che io non avevo affatto chiesto che la ragazza venisse affidata alla Mi­netti, essendomi limitato a chie­dere alla stessa Minetti di recarsi in Questura unicamente per age­volare l’identificazione della ra­gazza. Il suo affido a una comuni­tà- famiglia mi era del tutto indif­ferente e, quando una settimana dopo Ruby fu fermata nuovamen­te dalla polizia e affidata a una co­munità­ famiglia di Genova, non ritenni in alcun modo di interve­nire al riguardo.
Successivamente a tali fatti io non mi sono più occupato delle vicende della ragazza. Ho saputo però che il mio amministratore, il ragioniere Spinelli, le conse­gnò successivamente a seguito di continue e reiterate insistenze, una somma di qualche migliaio di euro.

Voglio infine ribadire che i miei rapporti con le ospiti alle mie cene erano basati sulla sim­patia, sul cameratismo,sull’ami­cizia e sul rispetto e che non c’è mai stata alcuna dazione di dena­ro per ottenere rapporti intimi. Devo anche affermare con forza che nessuna delle mie ospiti pote­va essere classificata, per quanto a mia conoscenza, come «escort» come invece poi è accaduto sui media nazionali e internaziona­li.
Questo procedimento penale ha causato davvero dei danni as­soluti all’immagine e alla vita di queste ragazze che oggi hanno difficoltà a trovarsi un fidanzato, un lavoro, una casa in affitto. E questa è la parte più dolorosa di questo processo che si è trasfor­mat­o in una mostruosa operazio­ne di diffamazione internaziona­le
per me e per le mie ospiti.
In realtà sempre (e fortunata­mente)
la mia capacità economi­ca mi ha consentito di aiutare che si trova in difficoltà. Da quando è iniziata questa operazione diffa­matoria ho ritenuto di dover aiu­tare anche molte di queste ragaz­ze, poiché, lo ripeto, hanno avuto la vita e la carriera lavorativa rovi­nata dall’impatto mediatico di questa indagine.

Per concludere: avrei qui prefe­rito rendere interrogatorio anzi­ché dichiarazioni spontanee. Ma la storia di questi vent’anni di ac­cuse che la Procura di Milano ha di continuo portato avanti nei miei confronti non mi consente di seguire questa via. Sono infatti disponibile a farmi interrogare da chi ponga domande essendo davvero interessato alle mie ri­sposte.
Si legge perfino su alcuni gior­nali avversi alla mia parte politi­ca che questo tribunale avrebbe già deciso per la mia condanna e questo renderebbe ovviamente inutile qualsiasi mia dichiarazio­ne. Io non voglio credere che sia così e spero che queste illazioni si­ano smentite dai fatti. Se in un Pa­ese­non ci fosse più la certezza del­l’imparzialità dei giudici questo Paese sarebbe un Paese incivile, barbaro, invivibile e non sarebbe nemmeno più una vera democra­zia.

Io credo invece che in Italia, il mio Paese, il Paese che amo, il Pa­ese che tutti noi amiamo, debba esserci ancora e sempre la certez­za sulla imparzialità dei giudici.

Ed è per questo che contro il pare­re di molti ho deciso di rilasciare queste «dichiarazioni sponta­nee » illustrando i fatti nella loro concreta realtà.
Vi ringrazio

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