Milano - Tre anni di difese d'ufficio e di arrampicate sugli specchi vanno a sbattere ieri pomeriggio contro la solidità di poche e semplici parole, che trapelano dagli atti del Consiglio superiore della magistratura e certificano quello che già si poteva vedere a occhio nudo: l'indagine su Silvio Berlusconi per il caso Ruby è nata fin dal primo giorno fuori dalle regole. A condurla è stato un magistrato che non aveva il titolo per farlo. Quel magistrato si chiama Ilda Boccassini, il procuratore aggiunto della Repubblica che si è poi presa l'incarico di condurre in aula il processo all'ex presidente del Consiglio, chiedendo e ottenendo la sua condanna per concussione e prostituzione minorile. Ma quell'inchiesta non poteva farla lei.
Non lo dice Berlusconi e non lo dicono i suoi legali. Lo dice un magistrato al di sopra di ogni sospetto: Manlio Minale, ex procuratore capo di Milano, che nell'autunno del 2010 era, come oggi, procuratore generale. Minale è stato interrogato dal Csm nell'ambito dell'inchiesta scaturita dall'esposto di Alfredo Robledo, procuratore aggiunto, sulla gestione dei fascicoli di inchiesta della Procura milanese.
Nell'elenco dei casi che sarebbero stati gestito non secondo le regole della giustizia ma secondo quelli della opportunità politica, Robledo ha inserito anche il caso Ruby, un fascicolo di cui Ilda Boccassini si sarebbe impossessata senza averne titolo. E Minale conferma integralmente: Ilda Boccassini interrogò «senza titolarità», il 30 ottobre 2010, il capo di gabinetto della questura di Milano Pietro Ostuni, che quel giorno rivelò per la prima volta di avere ricevuto una telefonata di Silvio Berlusconi la notte in cui Ruby si trovava in questura. La testimonianza di Ostuni si è poi rivelata decisiva per la condanna del Cavaliere per concussione.
Peccato che fino a quel momento titolare del fascicolo fosse un altro magistrato, il pm Antonio Sangermano, coordinato dal procuratore aggiunto Pietro Forno, specialista in reati sessuali. Dal luglio precedente, erano Forno e Sangermano a condurre gli interrogatori di Ruby, nella comunità che la ospita. Ma a ottobre irrompe in scena la Boccassini, che ha saputo non si sa come che l'indagine sta toccando Berlusconi. E che si fa avanti, forte di meriti e esperienze acquisiti in tre lustri di indagini sul Cav.
In quel momento la «Rossa» non ha alcuna competenza in materia, perché è a capo del pool antimafia, mentre l'indagine spetterebbe a Forno per il lato «sessuale» e per il reato di concussione al pool guidato da Robledo. Ma accade il miracolo. Il 28 ottobre, Bruti accoglie improvvisamente la richiesta di trasferimento al pool antimafia del pm Sangermano, che da quel momento fa così parte della squadra di Ilda. E due giorni dopo avviene l'interrogatorio di Ostuni, con la Boccassini che assume il controllo dell'inchiesta come coordinatrice di Sangermano. Così, almeno, ha sempre spiegato Bruti, parlando di una prassi costante in uso nella Procura di Milano, di chi però non si trova traccia in alcun altro caso.
Ora a certificare che le regole furono violate è Minale, un magistrato difficilmente sospettabile di berlusconismo. Per le sorti del processo poco cambia, le prove raccolte dalla Boccassini restano valide, e varranno nel processo d'appello che si aprirà il 20 giugno. Ma se si vuole capire in che modo e con che obiettivi sia stata condotta la caccia al Cavaliere, la testimonianza di Minale scioglie i dubbi residui. La Boccassini, dice Minale, «non aveva titolarità».
Ma sapeva delle indagini su Ruby, e nei due giorni successivi all'ingresso di Sangermano nella sua squadra ebbe la conferma che quella era l'occasione giusta per incastrare Berlusconi. «Questa inchiesta devo farla io», disse. E Bruti abbozzò. Ora il Csm gliene chiederà conto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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