Bugia di Monti in tv: i marò sono al sicuro Ma rischiano la vita

Il premier dice di avere ricevuto garanzie dall'India. Invece il caso passa all'antiterrorismo: è prevista la pena di morte

Bugia di Monti in tv: i marò sono al sicuro Ma rischiano la vita

Il presidente del Consiglio, Mario Monti, pontifica in tv sui marò, ma poche ore dopo viene smentito dagli indiani. Il premier domenica scorsa, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, ha ribadito la storiella delle «personali assicurazioni» ricevute dal capo del governo indiano sul destino dei fucilieri di marina. Ovvero i marò non rischiano l'impiccagione. Poi ha aggiunto che le garanzie «si sono confermate operativamente con il trasferimento a un'agenzia di polizia indiana che si occupa solo di casi che non prevedono la pena di morte».

Pochi giorni prima il viceministro degli Esteri Staffan De Mistura, aveva anticipato la stessa bufala sostenendo che il passaggio dall'antiterrorismo alla polizia criminale dell'inchiesta sui marò «è un fatto positivo, quello che chiedevamo».

Peccato che Monti e De Mistura siano stati clamorosamente smentiti ieri dal procuratore generale indiano, Goolam Essaji Vahanvati, che rappresenta il governo di Delhi. In udienza davanti alla Corte suprema ha ribadito che «l'Ufficio centrale di investigazione (Cbi)» al quale Roma pensava fosse stata passata l'inchiesta sui maro «è sovraccarico (di lavoro) ed il governo ha scelto l'Agenzia nazionale (Nia) come istituzione per indagare sul caso». La Nia è una specie di Fbi indiana, che si occupa soprattutto di antiterrorismo e vuole utilizzare contro Latorre e Girone il «Sua Act», per la sicurezza marittima, che prevede la pena di morte.

Ancora gli indiani ci hanno sbugiardati. L'avvocato Mukul Rohatgi, a nome del governo italiano, ha sostenuto in aula che se indaga l'antiterrorismo non c'è scampo: «I responsabili devono per forza essere condannati a morte». Per questo motivo ha chiesto alla Corte suprema di passare le indagini «alla polizia criminale (Cbi) o in subordine una sentenza che esplicitamente proibisca alla Nia (l'antiterrorismo) di avvalersi del «Sua Act» che prevede la forca.

Per Monti e De Mistura il problema era già risolto e lo hanno pure annunciato ai quattro venti. Il procuratore generale indiano ha invece difeso la scelta dell'antiterrorismo «giustificata dalla necessità di un'inchiesta rapida» che dovrebbe concludersi «entro 60 giorni». La difesa chiede che non si superi il mese. Il presidente della Corte suprema, Altamas Kabir, ha rinviato l'udienza a lunedì prossimo per decidere sulle richieste italiane, ma la posta in gioco non è solo la pena capitale.

Sembra quasi che Palazzo Chigi abbia dimenticato la linea del Piave decisa fin dall'inizio della crisi con Delhi. L'Italia si è sempre battuta per la giurisdizione sul caso opponendosi al processo ai marò in India. Adesso ci stiamo arrampicando sugli specchi battagliando su quale polizia indiana deve indagare. Non solo: l'arbitrato internazionale che l'Italia può chiedere in qualsiasi momento è rimasto lettera morta.

Negli ultimi giorno il Bjp, il partito nazionalista indù all'opposizione, ha continuato a chiedere la linea dura.

Il portavoce, Meenakshi Lekhi, vuole che indaghi l'antiterrorismo, ma fa notare che se «i marò venissero giudicati secondo il Codice penale indiano», come auspica Palazzo Chigi, in ogni caso «la sentenza potrebbe essere la pena di morte o l'ergastolo».

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