L'oltraggio ai cadaveri è antico come l'uomo. Si ha cognizione di popoli ancora semipreistorici che, nelle difficoltose trasferte verso territori più favorevoli, portavano come ultima e disperata risorsa di cibo dei prigionieri vivi, che mutilavano cercando di lasciarli in vita per mangiarli pezzo dopo pezzo, e infine divorare i cadaveri. Ma almeno era una questione di sopravvivenza.
Con l'avanzare della civiltà, si cercarono - trovandole - tecniche sempre più raffinate per torturare i vivi e sfregiare i morti. L'esempio più tremendo è la tecnica, praticata anche da etruschi e romani, di legare strettamente un vivo a un cadavere, magari un suo familiare, amico, complice: faccia a faccia, bocca contro bocca. Il morto, lentissimamente, finiva per uccidere il vivo con la sua stessa putrefazione, i suoi stessi vermi di decomposizione.
In epoca medievale era diffusa la pratica di esporre i cadaveri in pubblico, dopo la solita morte lentissima. Chiusi in gabbie appese in luoghi molto frequentati, i condannati venivano fatti a pezzi, giorno dopo giorno, e lasciati esposti finché ne rimaneva soltanto lo scheletro. Con sadismo speciale si toglievano all'infelice lunghe strisce di pelle, perché la carne andasse in purulenza mentre era ancora vivo.
La ferocia contro il defunto non toccava soltanto a criminali, eretici, nemici. Papa Formoso, morto nell'896, non era piaciuto al suo successore Stefano VI: Formoso era passato alla cosiddetta miglior vita da nove mesi quando i suoi avversari estrassero il cadavere dalla tomba e, alla presenza del successore, lo processarono in un concilio solenne. La difesa di Formoso, com'era prevedibile, non fu granché. Al cadavere, abbigliato da papa, furono amputate le tre dita usate per benedire, poi venne portato a spasso per Roma a dorso di un asino, con la testa rivolta verso la coda, e infine scaraventato nel Tevere.
Il potente decaduto attira da sempre l'ira di chi gli è stato sottoposto, magari con entusiasmo. A metà del XIV secolo toccò a Cola Di Rienzo, l'unico capo non religioso che i romani si fossero dati fino a allora. Cola, prima di diventare un paranoico, aveva indicato la strada della giustizia sociale, dell'esercito popolare, dell'unità, della laicità e dell'indipendenza nazionale: un po' troppo da farsi in così poco tempo, con così poco cervello, con un tale popolo e con tanto anticipo. I romani, dopo averlo adorato, lo linciarono, straziarono il corpo e lo appesero per i piedi vicino alla chiesa di San Marcello. Il cadavere senza testa venne lasciato due giorni a fare da bersaglio alle sassaiole dei ragazzi: «Pareva uno smisurato bufalo o vacca al macello», scrisse un cronista.
É fin troppo facile fare paralleli fra Cola e Mussolini; entrambi furono catturati travestiti, trucidati e appesi per i piedi da quel popolo che li aveva tanto amati; entrambi erano oratori esaltanti, avevano il culto della romanità e idee rivoluzionarie che si rivelarono velleitarie. E poi Mussolini perse, disastrosamente, una guerra atroce. Quel che capitò al suo cadavere - a quelli dei suoi gerarchi, e persino a quello della sua amante innocente, Claretta Petacci - è noto. E suggerisco di leggere il bel saggio di Sergio Luzzatto Il corpo del duce (Einaudi) per capire le inaccettabili motivazioni di uno scempio. Uno scempio molto peggiore di quello che è toccato, molto più recentemente, a Gheddafi. Il principio è lo stesso, una vendetta barbara e vile contro il simulacro senza vita del nemico.
Sarebbe stato lo stesso, probabilmente, contro il cadavere di Priebke, se una folla di inferociti fosse riuscita a metterci sopra le mani. E avrebbero punito, con quel gesto, non il nazista, non il nazismo, ma - è mancata anche alla Chiesa - la pietà umana: che dell'uomo è una componente essenziale, tale da distinguerlo da quasi tutti gli altri animali.
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